Agli inizi del Novecento, la miseria in cui versava buona parte degli italiani, acuita al Sud dalla dura repressione governativa delle rivolte popolari, impone a milioni di meridionali la strada dell’emigrazione. Oltre 1 milione di siciliani salpa verso gli Stati Uniti, senza sottrarsi al laccio della società che ancora non si chiama Cosa Nostra, ma che Oltreoceano ha già messo radici, offrendo la sua interessata protezione a una massa di diseredati in duplice posizione di sudditanza: schiavi della povertà e del forzato trasferimento in una realtà nuova e spaesante.
È la mafia di “Bruccolino” (Brooklyn), quella spietata e paternalistica raccontata dal “Padrino” di Francis Ford Coppola, che vive sul pizzo imposto ai connazionali e su qualsiasi traffico lecito e illecito che possa rendere dollari facili. Non tutti i siculo-americani si piegano al ricatto, molti finanziano una task force nata in gran segreto all’interno della Polizia di New York.
La comanda un poliziotto italoamericano, Joe Petrosino, nato a Padula in provincia di Salerno ed emigrato negli States, dove è cresciuto. A differenza dei colleghi americani, conosce la lingua del ghetto italiano e per la malavita del racket, raccolta nella misteriosa associazione detta “la Mano Nera”, diventa un pericolo. Investigatore di razza, Petrosino raccoglie informazioni dagli italiani vessati e comincia ad assestare colpi micidiali ai “picciotti” d’esportazione: ne finiscono in guardina a centinaia, mentre Joe si conquista una promozione dietro l’altra. Quando è già tenente e ormai investigatore di mezza età, comprende che gli equilibri criminali “a stelle e strisce” sono ancora dettati dalla madrepatria e sbarca a Palermo nel febbraio del 1909, carico di dollari – lo finanziano i banchieri Rockefeller e J.P. Morgan, molto preoccupati da un vasto spaccio di dollari falsi gestito dai siciliani – e di idee precise sul da farsi, la prima delle quali è muoversi da solo e in incognito. Peccato che un giornale newyorkese abbia pubblicato la notizia della sua partenza. Ma Petrosino non indietreggia, resta convinto che a Palermo come a New York la malavita non osi sfidare la legge al punto da uccidere un poliziotto.
Nel capoluogo siciliano l’investigatore sembra muoversi a suo agio negli ambienti delle coppole storte. Spende con prodigalità e raccoglie informazioni preziose, di giorno consulta senza sosta i casellari giudiziari e a fine giornata torna all’Hotel de France, in piazza Marina.
Una sera il cameriere lo avverte che due signori chiedono di lui. Petrosino li segue fuori dall’albergo e viene colpito da 3 colpi di rivoltella mentre cammina lungo la cancellata del parco. Muore sul selciato dopo un quarto colpo alla testa. Il cadavere di Joe Petrosino sfilerà sulla Fifth Avenue per i più imponenti funerali che New York abbia mai visto: 250mila persone, interi reparti di Polizia dietro la bara del primo italiano ad aver conquistato il distintivo della Polizia della città. In Sicilia, intanto, la Polizia indaga, ma non cava un ragno dal buco. Tutte le attenzioni investigative si concentrano su Vito Cascio Ferro, malavitoso di successo – secondo alcuni sarebbe da considerarsi addirittura il fondatore della mafia siciliana – nel cui portafogli viene trovata la foto di Petrosino. È stato lui a sparare in piazza Marina? Tutto lo fa pensare, ma don Vito ha un alibi robusto, confezionato addirittura da un deputato, pronto a giurare che quella sera il boss era rimasto a cena da lui. E agli investigatori sciorina pure il menù della serata. Vito Cascio Ferro evita il carcere, ma non potrà sottrarsi al ciclone scatenato nel 1926 dal “prefetto di ferro” del Duce, Cesare Mori, che lo obbligherà a una lunga residenza nelle patrie galere, dove troverà la morte nel 1943 sotto le bombe alleate.