«Quota 100» (con la possibilità di andare in pensione in anticipo con 38 anni di contributi) sarà una norma-ponte, destinata a durare 3 anni; dal 2022-2023 varrà per tutti «quota 41». È la novità che emerge dal lavoro sulla manovra. Il “pacchetto pensioni” da tradurre in emendamento è pronto: le misure definitive prevedono anche una proroga di “opzione donna” per un anno (e non tre), così come per l’Ape sociale. Confermato in via strutturale il non adeguamento alla speranza di vita dei requisiti per l’uscita anticipata con 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Tuttavia, chi nel 2019 andrà in pensione anticipata con il meccanismo di «quota 100» percepirà un assegno decisamente più basso di quello che avrebbe preso aspettando di lasciare il lavoro secondo le regole attuali, anche se lo riscuoterà per più anni. La perdita sarà maggiore rispetto alla pensione di vecchiaia, quella che si otterrà l’anno prossimo con 67 anni d’età (e 20 di contributi), oscillando da un minimo di circa il 16% a un massimo del 22,3%. Ma l’assegno sarà più leggero anche rispetto al regime attuale di pensione anticipata (nel 2019, 43 anni e 3 mesi di contributi, indipendentemente dall’età; un anno in meno per le donne). In questo caso la perdita andrà dal 3 al 22,3%. I calcoli sono contenuti in uno studio del sindacato guidato da Annamaria Furlan, il «Barometro Cisl», e sono curati dall’esperto di previdenza Maurizio Benetti. Si riferiscono a una retribuzione netta di 1.650 euro, «ma anche con stipendi più bassi o più alti le variazioni percentuali non sono significative», dice Benetti. Ciò che lascia perplesso il sindacato non è tanto la riduzione della pensione, ma il fatto che «quota 100» sarà permessa a partire da un alto livello di contributi: 38 anni, ai quali si sommerà un’età minima di 62 anni.