Politica Interna
I giudici e via D’Amelio: «Il dialogo tra Stato e mafia accelerò quella strage». Ad ammettere l’accelerazione della strage di via D’Amelio fu lo stesso Totò Riina, nelle conversazioni col suo compagno di passeggio intercettate in carcere nel 2013. «Ma non era studiato da mesi, studiato alla giornata…», disse in un’occasione il boss. E pochi giorni dopo: «Arriva chiddu (quello, ndr), ma subitu… subitu!… rammi un pocu ri tempu (dammi un po’ di tempo, ndr)…». Per i giudici queste parole «sono la conferma» che «effettivamente nei giorni precedenti la strage ebbe a verificarsi un qualche accadimento che ha indotto il Riina a concentrarsi, con immediatezza, nell’uccisione del dottor Borsellino». Che questo «accadimento» fosse la scoperta, da parte del magistrato, della trattativa fra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra non è provato, ma è una «conclusione che trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, Borsellino poco prima di morire le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi». Le motivazioni della sentenza che tre mesi fa ha condannato i tre ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre all’ex senatore Dell’Utri, per il reato di «violenza o minaccia a un Corpo politico dello Stato» commesso insieme ad alcuni boss mafiosi tra il ’92 e il ’94, parlano della strage di 26 anni fa, ma anche di molti altri fatti verificatisi in quella stagione di bombe e di profonde mutazioni politiche. E Berlusconi sapeva: «Senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi – scrivono i giudici – Dell’Utri non avrebbe potuto ovviamente disporre di così ingenti somme», che sarebbero state pagate fino al 1994. Berlusconi sapeva «del pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere». E qualcosa sarebbe stata concesso, con il decreto che restringeva l’applicazione della custodia cautelare per alcuni reati. La rabbia di Forza Italia: «Frasi che hanno uno scopo mediatico, giuridicamente valgono meno di zero».
Saviano nei guai: Salvini lo querela a nome del Viminale. A 26 anni esatti dalla strage di mafia in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino, il ministro dell’Interno vuole portare in tribunale lo scrittore anticamorra costretto a vivere sotto scorta per le minacce dei boss. È proprio questo, l’ultimo atto dello scontro a distanza fra il leader leghista Matteo Salvini, oggi al Viminale, e Roberto Saviano, l’autore del best seller “Gomorra”, conosciuto in tutto il mondo per il suo impegno civile contro la criminalità organizzata. Salvini ritiene che nelle offese a lui rivolte si configuri «una distruzione dell’onore e della reputazione dell’Amministrazione e del soggetto posto al vertice della stessa». In soldoni, più che un attacco politico alla sua persona, uno tra i tanti, i legali di Salvini ritengono che stavolta vada alzato il tiro, perché il Ministero viene accusato «di attività e provvedimenti partigiani contigui con la criminalità organizzata». Il punto cardine, sostenuto dai legali di Salvini, è appunto questo: «Definire mafioso il soggetto posto all’apice dell’Amministrazione che più di ogni altra ha il compito di combattere le organizzazioni criminali e affermare che scende a patti con la criminalità organizzata, svilisce il ruolo e la funzione dell’Amministrazione medesima, mortificando l’azione quotidiana di tutti i suoi appartenenti, lesi e offesi dalle affermazioni inveritiere di Saviano…». «Ho querelato Saviano, come promesso. Accetto ogni critica, ma non permetto a nessuno di dire che io aiuto la mafia, una merda che combatto con tutte le mie forze, o di dire che sono felice se muore un bambino. Quando è troppo, è troppo», scrive Salvini su twitter, chiudendo il messaggio con l’emoji che lancia un cuore con un bacio. Saviano gli risponde su Facebook: «Tocca agli uomini di buona volontà prendersi per mano e resistere all’avanzata dell’autoritarismo, anche di quello che, per fare più paura, usa la carta intestata di un ministero, impegnando l’intero governo contro uno scrittore. E sono sicuro che in questo “governo del non cambiamento” nessuno fiaterà, aggrappati come sono tutti al potere. Io non ho paura».
Politica Estera
Israele è uno Stato solo ebraico “Ma la legge è da apartheid”. Israele diventa più «ebraica», un «passo storico», per il premier Netanyahu, che la renderà più sicura e «inattaccabile». Ma secondo l’opposizione la legge fondamentale voluta dal centro-destra è un marcia verso uno «Stato per soli ebrei» che discrimina la minoranza araba e i palestinesi. La legge «Israele Stato-nazione del popolo ebraico», approvata poco prima dell’alba di ieri dalla Knesset, dopo una dura battaglia parlamentare che ha visto scendere in campo anche l’Alta Corte e lo stesso presidente Reuven Rivlin, è destinata a segnare un cambiamento epocale, ma ha spaccato il Paese. A favore del provvedimento hanno votato 62 deputati su 120. La legge stabilisce che Israele è la «patria storica del popolo ebraico» e soltanto gli ebrei «hanno il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale». Si rivoltano i palestinesi, che vedono l’arabo declassato a lingua ‘con status speciale’, e cancellato legalmente il sogno di riconoscere Gerusalemme Est come futura capitale del loro Stato. A protestare contro la controversa legge approvata per pochi voti ieri dalla Knesset, il Parlamento israeliano, sono l’Autorità nazionale palestinese, gli arabi israeliani, i politici di opposizione, i gruppi che si battono per il rispetto dei diritti civili. E parlano di apartheid e di razzismo. Immediato scatta dall’estero il sostegno di Paesi musulmani, subito la Turchia di Erdogan. E poi dall’Unione Europea, il cui rappresentante a Gerusalemme nei giorni scorsi ha più volte avuto manifestato la forte perplessità comune a Netnayahu. Il voto della Knesset, in realtà, si coniuga con la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, un passo sempre evitato per non moltiplicare tensioni regionali. Il problema è che con il voto di ieri viene legittimato il diritto dei settlers di occupare Territori palestinesi, anzi di poter ampliare colonie, fuori dai confini riconosciuti del Paese, che il mondo rifiuta perché in rotta di collisione con un possibile accordo condiviso tra le due parti in conflitto.
Missione Sophia a rischio: l’Ue minaccia lo stop e lascia sola l’Italia. Italia sempre più isolata in Europa: il governo Conte ora rischia di perdere Sophia, la missione militare Ue che dal 2015 pattuglia il Canale di Sicilia per contrastare i trafficanti e salvare i migranti. Il piano operativo della missione Sophia prevede che tutti i migranti salvati dalle navi Ue siano sbarcati in Italia. Roma lo aveva accettato in cambio del comando dell’operazione. Mercoledì la nostra diplomazia a Bruxelles ha chiesto al Comitato politico e di sicurezza dell’Unione (Cops) di modificarne il piano operativo eliminando la regola per cui tutte le persone soccorse in mare vengano sbarcate nei nostri porti. Ponendo in sostanza un aut aut: se gli altri paesi non offriranno le loro banchine, Roma boicotterà la missione. Posizione che ha stupito i partner perché non preannunciata, poco chiara e inattesa visto che l’Italia con l’ammiraglio Enrico Credendino ha il comando della squadra navale che le permette di controllare le acque di fronte alla Libia. Fatto sta che al Cops l’ambasciatore Luca Franchetti Pardo si è trovato isolato. «Erano 27 contro 1», raccontano fonti europee. I partner prima hanno eccepito una questione di metodo, chiedendo perché il governo non avesse preannunciato l’iniziativa al vertice dei ministri degli esteri di due giorni prima. Lo stop a Sophia sarebbe quindi un duro colpo per l’Italia e infatti a Roma, soprattutto al ministero della Difesa, vogliono scongiurare questo scenario. La riunione è stata aggiornata a oggi, ma intanto nessuno si è detto pronto ad aprire i porti di fronte alla minaccia italiana. A Bruxelles ora si parla di «irritazione» per i metodi del governo Salvini-Di Maio, tanto che in queste ore la missione è considerata a rischio.
Economia e Finanza
Ultimatum Lega-M5S a Tria sulle nomine di Cdp. Sulle nomine il catalogo è questo: o si accetta lo «schema Tria» o si cambia Tria. Posti davanti al bivio, Di Maio e Salvini hanno avuto ieri reazioni diverse. Il primo era sull’orlo di una crisi di nervi, rivendicava «una scelta politica» sugli assetti di potere, tenendo a ricordare che «il nostro è un governo politico non tecnico». Con chiara allusione al ministro dell’Economia. Il secondo ha avuto un approccio zen, al punto che i suoi sono rimasti disorientati: «Ma è Matteo o Arnaldo?». Perché mentre esplodeva il caso Cdp, e Palazzo Chigi era costretto a smentire il vertice a quattro appena annunciato, il leader della Lega minimizzava: «Massì, c’è qualche problema di assestamento. Però al momento state tranquilli». E al momento ha vinto lo «schema Tria», con il titolare di via XX settembre che si è potuto presentare da Conte senza dover incontrare anche i vice premier. Lo fa cosciente di quanto sia importante il colosso Cdp e della delicatezza del suo stesso ruolo, visto che è il Tesoro con l’82% del capitale (un altro 16% lo hanno le Fondazioni bancarie) a presentare la lista per il rinnovo del consiglio e a dare il voto decisivo per la sua elezione in assemblea. Sulle nomine, e in particolare sui vertici Cdp, Tria non solo ha riaffermato la procedura a cui tiene – e che prevede un rapporto diretto ed esclusivo con il capo del governo – ma ha anche ribadito la sua preferenza per una «soluzione tecnica» su Cdp. Con buona pace per Di Maio. Forte del risultato, ha potuto smentire le voci circolate nel Palazzo, prima di partire per il G20: «E’ falso che abbia minacciato le dimissioni. Insieme al presidente del Consiglio stiamo esaminando le varie soluzioni. E abbiamo tempo per scegliere le migliori». L’accordo che al momento manca è quello su Dario Scannapieco, attuale vicepresidente della Bei, in cima alla lista di Tria come nuovo ad di Cdp, ma non ancora in quelle dei due partiti di maggioranza.
Decreto dignità, Boeri attacca di Maio: “Ha perso contatto con la terra”. Il presidente dell’Inps Tito Boeri, ascoltato dalla Camera sul caso politico esploso a proposito della Relazione tecnica del «decreto dignità», ha difeso puntigliosamente le sue stime sulla perdita di posti di lavoro, che ha definito «addirittura ottimistiche». Ha ribadito di essere pronto ad andarsene dall’Inps, se glielo chiederanno nella forma giusta. E infine, l’economista ha attaccato in modo furibondo i due vicepremier. Matteo Salvini? «Mi minaccia chi dovrebbe tutelare la mia sicurezza». Luigi Di Maio? Primo, neanche ha sfogliato la relazione tecnica. Secondo, «ha perso contatto con la crosta terrestre». In serata, è arrivata la replica del premier Giuseppe Conte, che ha fatto sapere di considerare le parole di Boeri su Di Maio «inaccettabili e fuori luogo», facendo filtrare la sua «forte irritazione». Anche Di Maio ha risposto in serata: «La verità è che oggi Boeri si è seduto sui banchi dell’opposizione. Non è la prima volta, speriamo sia l’ultima». In ogni caso i calcoli dell’Inps erano nero su bianco e girati al governo già il 6 luglio. Nel merito, Boeri ha spiegato che la perdita occupazionale è inevitabile, perché «vi sono ampie ragioni, sia teoriche che empiriche, per ritenere che il provvedimento possa avere, almeno inizialmente un impatto negativo sull’occupazione». Intanto, Vincenzo Boccia si rivolge al governo, ribadendo che sul decreto dignità Confindustria è d’accordo sui fini e non sugli strumenti, e in particolare a Di Maio: «parole ingenerose», è stato il commento di Boccia riguardo alla frase scritta mercoledì su Facebook dal ministro, è cioè che Confindustria fa terrorismo psicologico sul decreto, dopo l’audizione alla Camera. «Noi critichiamo gli strumenti, non i governi. E ci aspetteremmo dal governo del paese la stessa cosa nei nostri confronti». E se Di Maio scrive “cittadini stateci vicini”, «io – ha detto Boccia – sono un cittadino imprenditore che rappresenta 160mila cittadini imprenditori».