Politica interna
Assemblea nazionale Pd,Renzi contesta tutti. Dal palco dell’Ergife, Renzi si prende la scena e senza mai nominarlo, attacca Gentiloni. Perché ha cancellato i voucher, perché non ha messo la fiducia sullo ius soli, perché un suo uomo (Zanda) ha bloccato al Senato la legge sui vitalizi presentata da Richetti. L’ex premier ascolta, terreo in volto, e non applaude mai. Poi la stoccata finale: «Non è l’algida sobrietà che fa sognare un popolo». Il riferimento sprezzante è all’ex presidente del Consiglio e tutti in sala lo colgono. Gentiloni sbarra l’occhio e solo quando mezza platea, alla fine dell’intervento, tributa una standing ovation a Renzi, mima, insieme a Minniti, un tiepidissimo applauso. Poi va via e consegna a qualche amico le parole della sua amarezza: «Imbarazzante, Matteo è stato veramente imbarazzante». Alcuni metri più in là di Gentiloni, in platea, lì dove ci sono gli invitati e non i big, defilato, c’è il governatore del Lazio. Un po’ sta in piedi, un po’seduto. Polo rossa, stringe qualche mano ma evita di fare lo struscio nella sala. Mentre Renzi parla scuote il capo: «Questo non cambia mai». Nicola Zingaretti ha ottenuto ciò che voleva: le primarie saranno il 24 febbraio (anche se la data verrà fissata solo a novembre) e ora si dovrà dare da fare. «Il weekend ci toccherà andare in giro per l’Italia e costruire i comitati per l’alternativa, perché dobbiamo disarticolare il fronte avversario. Il modello è quello della Regione Lazio». Tradotto: «si possono riportare i voti grillini a noi e ragionare con i 5 Stelle». L’esatto opposto di quanto dice Renzi che dal palco ribadisce la vocazione maggioritaria del Pd. Renzi se la prende pure con la stampa, i cantanti, gli attori colpevoli di intendenza col grillismo: «Rispetto chi dice che il M5S è la nuova sinistra, ma io trovo che sia la vecchia destra. Hanno fatto la guerra al Matteo sbagliato». E conclude il giro d’accuse – da cui tiene rigorosamente fuori la sua leadership – con un affondo contro l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro: «A Macerata il Pd c’è stato, ma intellettuali radical chic fecero editoriali per dire “dov’è la sinistra”. Caro Ezio Mauro, a forza di attaccare noi, si apre un’autostrada da Salvini a Casaleggio». La verità è che quando sale sul palco ha in mente uno schema chiaro. Vuole innanzitutto rivitalizzare il corpaccione renziano un po’ depresso, che infatti urla come fosse in trincea e applaude come si ritrovasse allo stadio. Su Repubblica Claudio Tito parla di Renzi come id un politico “chiuso nel livore di chi non riesce a riconoscere la sconfitta, di chi non si rende conto che buona parte dell’ultima tornata elettorale si è giocata sulla sua antipatia e sul voto degli italiani contro di lui. La sua capacità di leadership si è trasformata nel mero potere di interdizione. La rabbia ha preso il posto della prospettiva. Chiudere l’intervento, senza alcun cenno di autocritica, sfidando al prossimo congresso una fantomatica minoranza, significa non capire che a perdere non saranno i suoi avversari e a vincere non sarà lui. Vuol dire dare un ennesimo spintone alla sinistra verso il baratro dell’estinzione”.
Lega, indagine su 100 conti. Mattarella riceverà Salvini al Colle. Conti correnti, libretti di risparmio, depositi, rapporti bancari di ogni genere. Gli uomini del Nucleo di polizia economica di Genova stanno cercando di districarsi nel complesso mondo finanziario della Lega, centrale e periferica. Un’indagine che al momento ha fissato l’ordine di grandezza del sistema: una quarantina di istituti di credito nei quali sono stati aperti quasi cento conti di varia natura. I numeri danno l’idea del lavoro che sta affrontando la procura, dove è stato aperto un fascicolo per riciclaggio del quale si sta occupando la Finanza. Non ci sono indagati, ha detto il procuratore capo Francesco Cozzi, che nei giorni scorsi aveva precisato come questi movimenti di denaro «possano essere anche leciti, si tratta di verificarlo». La vicenda giudiziaria si intreccia strettamente con quella politica. E arriva fino al Qurinale. Domani Mattarella riceverà Salvini, ma solo nella sua veste di «vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno». Non in quella di personalità politica che denuncia un complotto giudiziario «per mettere fuori legge la Lega» attraverso il sequestro preventivo di tutti i conti del partito (fino alla cifra record di 49 milioni di euro) ordinato da una sentenza della Cassazione. Deve dunque essere chiaro che «sono ovviamente escluse dall’oggetto del colloquio valutazioni o considerazioni su decisioni della magistratura». È telegrafica e va dritta al punto la nota con cui il Quirinale ha annunciato ieri il faccia a faccia tra Sergio Mattarella e Matteo Salvini. Il capo dello Stato, dopo aver subìto un pedinamento virtuale in ogni tappa del suo viaggio nei Paesi Baltici per «un appuntamento urgente», una volta rientrato a Roma, l’altra sera, ha affrontato la questione. La richiesta d’incontro del «capitano» leghista, sbandierata sul web e in tv, ma mai formalizzata, era finalmente giunta al destinatario. E poteva dunque esser presa in esame. Il chiarimento ha richiesto un paio di giorni e molto merito va riconosciuto a Giorgetti, numero due della Lega, destinato a svolgere nelle istituzioni la stessa funzione balsamica per cui era divenuto celebre in passato Gianni Letta. Tutto ciò significa che, quando Presidente e vicepremier si trover anno faccia a faccia, parleranno solo di immigrazione senza scambiare neppure mezza parola sul tema che più angustia la Lega, cioè la totale mancanza di fondi per sostenere le sue battaglie presenti e future? Fonti autorevoli di via Bellerio, ieri sera, erano pronte a scommettere che in qualche misura questo tema verrà affrontato. O meglio: nella riservatezza del colloquio Salvini tenterà di proporlo.
Politica estera
Migranti e petrolio con la Libia torna l’accordo di Berlusconi. Il governo italiano Lega-5Stelle punta ormai quasi tutte le sue carte sul governo libico di Tripoli, quello presieduto da Fgjez Serraj e riconosciuto dall’Onu. Un governo sempre più debole, ricattato dalle milizie armate che lo “proteggono” ricattandolo, ma comunque l’unico governo legale presente in Libia. Una conferma di questa apertura italiana viene anche dal fatto che la prima visita “bilaterale” di Enzo Moavero Milanesi, il nuovo ministro degli Esteri, è stata fatta ieri proprio a Tripoli. Dopo la missione di Salvini in Libia, dopo quella del vice-premier Maitig a Roma, ieri è toccato a Moavero: nella capitale libica il ministro ha visto Serraj, il suo collega Siala, il vice-premier Maitig e anche Khaled Al Mishri, il presidente dello High State Council, il “senato” delle istituzioni libiche. In conferenza stampa con Siala, Moavero ha confermato che l’Italia userà i “due pilastri” di cui dispone per lavorare alla stabilizzazione della Libia: il primo è lo strumento dell’ambasciata, che verrà rafforzato e protetto sempre meglio. Il secondo è il “Trattato di amicizia” del 2008, quello firmato da Gheddafi e Berlusconi, congelato nel 2011 allo scoppio della ribellione. Il nuovo governo di Roma conferma che vuole rimetterlo in funzione. Non è stato precisato se il testo del trattato sarà modificato o riattivato senza cambiamenti, ma gli occhi sono puntati sui respingimenti dei migranti che partono dalla Libia, perché quello è il Paese da cui cercano di raggiungere l’Italia migliaia di disperati. Un punto controverso, visto che in ballo c’è il rispetto dei diritti umani nel Paese dove sorgono campi di detenzione e dove gli stranieri sono in balia di torture e maltrattamenti. La Libia «condivide con l’Unione europea la responsabilità e il dovere di far fronte ai flussi di migranti – ha dichiarato Moavero – la collaborazione tra Libia, Italia e Ue è essenziale per risolvere la questione ed evitare drammi umani». Un risultato diplomatico da portare sul tavolo del vertice dei ministri dell’Interno Ue di giovedì a Innsbruck, dove Salvini ribadirà la linea dura dell’Italia.
Il Papa: «I potenti la smettano di calpestare il Medio Oriente». «Non si dimentichi il secolo scorso, non si scordino le lezioni di Hiroshima e Nagasaki, non si trasformino le terre d’Oriente, dove è sorto il Verbo della pace, in buie distese di silenzio». E’ la prima volta che il vescovo di Roma invita a un incontro di preghiera tutti i capi delle Chiese d’Oriente, una galassia che cominciò a dividersi a partire dal Concilio di Efeso del 431. E la preghiera comune del Padre Nostro sul lungomare ventoso e assolato di Bari, «finestra spalancata sul vicino Oriente», è destinata a restare nella storia come l’immagine del Papa che parla accanto a una ventina di patriarchi fuori dalla Basilica di San Nicola, dopo due ore e mezzo di incontro privato, quasi a riassumere il pensiero di tutti i cristiani sul «Medio Oriente in agonia», la terra nella quale «ci sono le radici delle nostre stesse anime». Un Medio Oriente senza cristiani «non sarebbe Medio Oriente», ha detto Bergoglio denunciando le «sfrenate corse al riarmo» e la «gravissima responsabilità, che pesa sulla coscienza delle nazioni, in particolare di quelle più potenti». Soffiava il vento di Maestrale sulla città pugliese quando Francesco e una ventina di patriarchi – tra di loro Bartolomeo di Costantinopoli, il russo Hilarion, il copto Tawadros e il luterano Sani Ibrahim Azar – dopo aver pregato davanti alle reliquie di san Nicola, sono saliti insieme sul pullman per raggiungere la Rotonda del Lungomare dove si è pregato per la pace. Ma il fatto inedito sono state le due ore circa di confronto, seduti attorno a un tavolo rotondo nella basilica, a porte chiuse. A introdurre la discussione, una relazione del francescano Pierbattista Pizzaballa, amministratore del patriarcato latino di Gerusalemme, che ha analizzato i grandi cambiamenti in corso e il ruolo delle Chiese cristiane, le quali – ha spiegato – non devono appoggiarsi al potere politico. Pizzaballa ha insistito sulla necessità di essere uniti, mettendo da parte ataviche rivalità e differenze: solo così la voce dei cristiani potrà avere un peso.
Economia e Finanza
Incentivi per stabilizzazioni. Taglio al cuneo in manovra. Una riduzione strutturale del cuneo fiscale è l’altra faccia dell’intervento sul mercato del lavoroa cui pensa il governo Conte. L’operazione, risorse permettendo, dovrebbe concretizzarsi in autunno con la legge di bilancio, ma non è esduso che qualche intervento possa essere introdotto già in sede di conversione parlamentare del decreto estivo. Al momento le ipotesi un po’ più gettonate sono due e non necessariamente alternative tra di loro. La prima, ripetuta, da giorni, dal titolare del dicastero di via Veneto, Luigi Di Maio, è quella di un taglio selettivo del costo del lavoro, a partire da due settori innovativi e strategici, made in Italy e imprese digitali. Il dossier, da quanto si apprende, è in fase di approfondimento tecnico, sia per quanto riguarda l’eventuale compatibilità con la normativa Ue sia sul capitolo costi (immaginando, infatti, un intervento per favorire i nuovi contratti stabili in questi settori, ogni punto contributivo in meno, come noto, costa a regime intorno ai 2,5 miliardi di euro). Anche per questo, l’opzione dovrà essere valutata in sede di manovra 2019. La seconda ipotesi farebbe, invece, leva sull’eventuale introduzione nel decreto, in accordo con le Camere, di un incentivo, più o meno automatico, sulle stabilizzazioni di contratti a tempo determinato, considerata l’imminente stretta su questa tipologia negoziale in arrivo con il testo. Anche qui l’aspetto dei costi, e delle relative coperture, non è una variabile secondaria.
Cassa depositi e prestiti, si cambia Per il ruolo di ad il favorito è Sala. II dossier delle nomine entra davvero nel vivo, a cominciare dalla Cdp. «La vocazione di Cassa depositi e prestiti resterà quella classica», ha detto ieri il vicepremier e leader del Movimento Cinquestelle, Luigi Di Maio, a L’Intervista su SkyTg24. «Non la vogliamo far entrare nel perimetro dell’attività bancaria che porterebbe delle storture. Tuttavia, nel nostro programma c’è la banca degli investimenti e lo faremo anche nell’ambito della mission di Cdp». In ogni caso, ha aggiunto, «questo non è un governo di barbari che vuole mettere a ferro e fuoco la Cdp»: un messaggio diretto alle Fondazioni azioniste di Cdp che non vogliono investimenti a rischio o in aziende in crisi. Già domani — in vista dell’assemblea del 13 luglio che si terrà appositamente per il rinnovo delle cariche, dopo che è slittato l’appuntamento dell’assise dello scorso 28 giugno — dovrebbe essere reso noto il nome dell’amministratore delegato che porterà avanti quel programma, aveva detto venerdì Giancarlo Giorgetti, sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio. Anche ieri Di Maio ha confermato che le nomine saranno indicate «questa settimana. E sarà un segnale di rinnovamento. Vogliamo utilizzare al massimo le potenzialità di Cdp». Segno che l’accordo tra il partito guidato da Matteo Salvini e il M5S è ormai prossimo alla definizione. Ed è in particolare a manager di area Lega che il governo guarda con attenzione. Sono date in ascesa le quotazioni di Marcello Sala, 50 anni, già vicepresidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo.
Nelle ultime ore pare che il nome di Dario Scannapieco, “Ciampi Boy” e vicepresidente della Bei sia scivolato fuori dalla lista. Un altro nome che circolo, lo riporta Repubblica, è quello di Fabrizio Palermo. Il manager, che attualmente è il direttore finanziario dell’ente, ha tante frecce al suo arco: è giovane, conosce da vicino la Cassa ed è riuscito ad accreditarsi presso i pentastellati, grazie ai buoni rapporti con l’ad di Acea Antonio Donnarumma, che nella partecipata del Comune di Roma ha fatto da contrappeso a Lanzalone. Palermo sarebbe poi una scelta in continuità difficile da contestare. Per il ruolo del direttore generale, ugualmente di competenza del Mef, la rosa si sarebbe ristretta ad Alessandro Rivera, Stefano Scalera e Antonio Guglielmi, anche se il primo pare favorito rispetto agli altri due.