Politica interna
Renzi scontenta le correnti sulle liste. Per loro 50 posti, tensione nel Pd. Notte in bianco per molti nel Pd, alle prese con un intreccio decisamente complicato che dovrebbe portare a partorire oggi alle 10.30 la lista completa delle candidature. Termine che quasi sicuramente slitterà, visto il caos che regnava a tarda sera. A sciogliere i nodi della matassa c’è il segretario Matteo Renzi in persona, che deciderebbe da solo, consigliato dal fido Lotti, supportato dalla sua cerchia in una serie di incontri al Nazareno che hanno l’obiettivo di trovare una quadra difficilissima. Perché il Pd, sondaggi alla mano, si troverà a dover gestire un crollo di parlamentari da 380 a circa 200. Non solo. C’è un pacchetto di esponenti di peso che non erano in Parlamento e che entreranno: tra gli altri, Piero Fassino, Maurizio Martina, Graziano Delrio, Pier Carlo Padoan. Poi ci sono i posti promessi agli alleati, la lista Europa di Emma Bonino, Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova (5 posti offerti); Civica Popolare di Beatrice Lorenzin e Insieme di socialisti e verdi (3 posti). A questi seggi, si aggiungono quelli che Renzi vuole pescare nella società civile. Il che comporterà il sacrificio anche di alcuni renziani. Sarà il caso, probabilmente, di Roberto Cociancich e di Mauro Marino. Rischia anche Beppe Fioroni. Dal Nazareno smentiscono ufficialmente le voci di «repulisti». Ma alla fine, i conti non tornano. Alle minoranze Renzi vorrebbe lasciare una cinquantina di seggi. Orlando attende una proposta potabile per la sua componente. Le regioni sperano di non ospitare troppi estranei. Gli alleati consentiranno di avere voti aggiuntivi ma per il momento sono una spina nel fianco. Gli studi sugli uninominali sono poco incoraggianti, ma a qualcuno verrà chiesto il sacrificio di correre solo lì, di giocarsela e di lottare. Come farà nella sua terra, probabilmente, Luca Lotti, l’uomo più citato di queste ore. Candidato nel maggioritario a Empoli e senza protezione del listino. Però non tutti gli uninominali sono uguali e non tutti hanno lo stesso radicamento.
Mattarella: «Fascismo disumano, non ebbe meriti». «Un capitolo buio, una macchia indelebile, una pagina infamante della nostra storia». Ecco che cosa sono state, per Sergio Mattarella, le leggi razziali del 1938. Norme rivelatrici del «carattere disumano del fascismo» e che trovarono le «connivenze, la complicità, le turpi convenienze, l’indifferenza di istituzioni, politica, cultura e società italiana». Il frutto malsano, insomma, di un regime che «non ebbe alcun merito»”, come «ci sorprendiamo a sentir dire ancora oggi da qualche parte», con la pretesa che gli «unici errori della dittatura siano stati appunto quelle leggi e l’entrata in guerra». Un’affermazione simile è «gravemente sbagliata e inaccettabile, perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto a un certo modo di pensare, ma una diretta e inevitabile conseguenza… erano insite nella natura violenta e intollerante di quel sistema». Il capo dello Stato marchia con durezza la svolta mussoliniana di 80 anni fa, che appaiò l’Italia alla Germania di Hitler. Parole acuminate, le sue. Che forse non a caso cadono all’indomani di quanto ha detto il candidato leghista alla presidenza della Lombardia, Attilio Fontana, piegando il senso dell’articolo 3 della Costituzione in un appello elettorale «in difesa della razza bianca». In un editoriale su Repubblica Ezio Mauro scrive che “con questa testimonianza il Capo dello Stato condanna la banalizzazione del fascismo praticata oggi quotidianamente, e distrattamente introiettata dal sistema politico e culturale, la riduzione della dittatura a vizio del carattere nazionale, la derubricazione del regime ad ambiguità politica, incidente casuale, esperimento italico, folclore della storia. Questa condanna si accompagna al recupero del nesso troppo facilmente smarrito in questi anni tra la Resistenza (come moto nazionale autonomo di ribellione alla dittatura), la riconquista della democrazia, la Costituzione, la nascita della Repubblica e delle sue istituzioni”.
Politica estera
Caso Regeni, la nuova ipotesi della Procura «In quattro tradirono Carlo». Manifestazioni in tutta Italia, «tinta di giallo», come hanno detto i suoi familiari, segnano il secondo anniversario della scomparsa del ricercatore Giulio Regeni, scomparso a pochi passi da una fermata della metro del Cairo mentre provava a raggiungere gli amici per una cena. Dopo l’ennesima circolazione di un documento che racconta la sua fine, bollato come «falso» ma che parla di un passaggio di consegne tra la polizia e i servizi segreti egiziani dopo il suo arresto, la procura di Roma ha chiesto nuovamente ai colleghi egiziani di fare un passo avanti nella ricerca della verità. Dal punto di vista degli inquirenti romani, le indagini sono praticamente concluse. E’ stato individuato un gruppo di poliziotti che molto probabilmente sarebbe responsabile tanto del sequestro quando delle torture che hanno ucciso il giovane ricercatore, finito nel mirino per i suoi studi sociologici. E comprese le connivenze di una rete di persone attorno al ragazzo, che se da un lato si dicevano disponibili ad aiutarlo nella ricerca «partecipata sui sindacati urbani» che stava svolgendo, dall’altra erano in costante contatto con polizia e servizi segreti. Sono almeno quattro quelli che sicuramente avevano relazioni con gli apparati di sicurezza e di cui risultano contatti anche nei giorni della sua sparizione. «Ma a Roma si sono accorti cosa sta succedendo? L’Italia è diventata gialla», dice Paola Regeni. «Mi dicono che la verità è lontana: e allora mi incazzo, perdonatemi», dice mamma Paola, avvolta nella sua sciarpa gialla, accanto a suo marito Claudio. «Mi incazzo perché sono convinta che la verità sia lì, se si vuole si arriva. Ecco dobbiamo volerlo. Volerlo». «Sappiamo che le responsabilità penali e materiali sono in Egitto. Noi vogliamo che venga iscritto nel registro degli indagati chi ha certamente avuto una responsabilità. Abbiamo i loro nomi. E sappiamo che portano la divisa. Ma noi sappiamo anche che ci sono responsabilità morali e civili a Cambridge».
Corsa degli italiani alla residenza in Inghilterra. Brexit sta facendo emergere una folla finora sommersa di italiani che vivono in Inghilterra. L’incertezza legata all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sta portando decine di migliaia di italiani, alcuni residenti da anni, a voler regolarizzare la loro posizione iscrivendosi all’Anagrafe italiani residenti all’estero (Aire). I numeri stanno aumentando a un ritmo tale che il Consolato generale di Londra ha superato Buenos Aires diventando il primo al mondo in assoluto per numero di iscritti e mole di lavoro. Gli iscritti all’Aire erano 28omila un anno fa, mentre ora sono 315mila, il numero più alto mai registrato da un consolato, ed entro marzo arriveranno a quota 350mila. Le iscrizioni pre-Brexit erano 1.800 al mese, ora sono tra le 3mila e le 3.200 al mese. «Siamo letteralmente sotto assedio, – afferma Massimiliano Mazzanti, console generale d’Italia a Londra. – E la sfida più difficile di tutta la mia carriera diplomatica. Brexit ha portato a un’ondata di panico tra i nostri connazionali, molti dei quali residenti qui da dieci anni e passa, che ora vogliono comprovare la loro presenza in Gran Bretagna e pensano erroneamente di farlo con l’iscrizione all’Aire». L’iscrizione all’Aire infatti fa parte della complessa documentazione da inviare alle autorità. Intanto, secondo l’agenzia Reuters, un documento della Ue conterrebbe concessioni che Bruxelles sarebbe pronta a fare a Londra e che renderebbero, almeno su alcuni temi, più lunga la fase di transizione fissata in 21 mesi dopo 30 marzo 2019. A Londra sarebbe anche riconosciuta la possibilità di fare accordi su sicurezza, difesa e anche commerciali prima della fine totale dei rapporti con l’Unione.
Economia e Finanza
Draghi critica gli Usa per le dichiarazioni sul dollaro debole. Nessun cambiamento nella politica monetaria della Bce, con i tassi che restano ai bassissimi livelli attuali «per un prolungato periodo di tempo e ben oltre l’orizzonte» del QE e con il programma degli acquisti netti di attività PAA che rimane in vigore fino a settembre open ended, con tre opzioni tra prolungamento e tapering o chiusura netta da un giorno all’altro. Questo è quanto è stato deciso ieri, con convinzione e senza forti disparità di vedute,dai membri del Consiglio direttivo della Bce. Le novità ieri ci sono state, ma in una comunicazione in chiaroscuro, per i mercati più falco, per la Bce più colomba. Dall’altro lato, però, la Banca ha anche messo ben in risalto «la recente volatilità del tasso di cambio che rappresenta una fonte di incertezza da tenere sotto osservazione per le possibili implicazioni sulle prospettive a medio termine della stabilità dei prezzi». Un linguaggio già usato a settembre ma rinforzato per «i rischi al ribasso compresi gli andamenti nei mercati valutari», e stime sull’inflazione che «devono ancora mostrare segnali convincenti di una protratta tendenza al rialzo». Inflazione e cambio È dunque in questa cornice, tra crescita e volatilità dell’euro, che vanno analizzate le parole di Mario Draghi in conferenza stampa. Il presidente della Bce ha difeso lo stimolo monetario molto accomodante perché ancora necessario. Mario Draghi ha accusato l’Amministrazione americana — senza citarla ma in modo chiaro — di giocare scorrettamente sul mercato dei cambi. Alcune volatilità nei rapporti tra le valute dei giorni scorsi, in particolare il rafforzamento dell’euro sul dollaro, sono state in parte provocate — ha detto — «dall’uso di un linguaggio che non riflette i termini di riferimento che abbiamo concordato». Si riferiva a una dichiarazione di Steven Mnuchin, il segretario al Tesoro americano, che mercoledì corso aveva detto, durante il summit di Davos, che il dollaro debole è una buona cosa in quanto aiuta l’export americano. In conseguenza di quella dichiarazione, il biglietto verde si era deprezzato sui mercati internazionali.
Italia-Francia, il patto dell’industria per la Ue. Crescita economica e competitività al centro del progetto europeo. Per realizzare una Ue più integrata, capace di mantenere la sua posizione nel mondo e offrire occupazione e benessere. Al centro, l’industria: «Non uno slogan, ma un riferimento costante» nelle politiche europee. È il messaggio che le imprese italiane e francesi mandano ai propri governi e a Bruxelles, messo nero su bianco in un documento di 14 pagine. È il risultato del primo Forum economico franco-italiano, che si è avviato ieri, in Confindustria. Un dialogo permanente, che proseguirà con un appuntamento annuale, nel 2019 previsto in Francia. I presidenti di Confindustria e Medef, Vincenzo Boccia e Pierre Gattaz, hanno condiviso l’impegno a rafforzare i collegamenti tra le due economie, una relazione complementare a quella politica, rilanciata a inizio anno a livello di governo, tra Paolo Gentiloni ed Emmanuel Macron, con il Trattato del Quirinale. E prorpio ieri Gentiloni ha parlato all’ambasciata francese a Palazzo Farnese davanti agli imprenditori italiani e transalpini, riuniti a Roma per il primo Forum economico italo-francese, subito prima della firma della dichiarazione congiunta tra le organizzazioni imprenditoriali. «La dichiarazione congiunta si colloca in un momento in cui tra i due paesi, dopo il vertice di Lione, si lavora per arrivare ad un Trattato bilaterale tra Francia e Italia» ha detto Gentiloni. Una presenza istituzionale di governo al massimo livello, a riprova che politica ed economia possono e devono cooperare. Gentiloni lo sottolinea «questo accordo tra le imprese è una tappa importante di un percorso che, se siamo coraggiosi, può portare veramente lontano».