Politica interna
Proiezioni elettorali. Alla sua prima quotazione ufficiale la lista Liberi e uguali registra un consenso del 6,6 per cento. Nelle intenzioni di voto (rilevate da Ipsos tra i15 e 6 dicembre) la nuova creatura politica tenuta a battesimo domenica scorsa dal presidente del Senato Piero Grasso conquista oltre un punto in più della somma di Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Un dato che premia il progetto di unificare le forze che stanno a sinistra del Partito democratico e che nel contempo sembra anche sfatare la tradizione che vuole sempre bocciata nelle urne la scelta di sommare soggetti diversi. Il peso attribuito a Liberi e uguali è la primizia assoluta del sondaggio di Ipsos che peraltro è stato fatto il giorno precedente il doppio forfait — di Angelino Alfano sul fronte centrista e di Giuliano Pisapia su quello di sinistra — tra i possibili alleati di Matteo Renzi. Due rinunce che potrebbero avere riflessi sul consenso del Partito democratico che, comunque, con questa rilevazione fa registrare il minimo storico della gestione renziana, il 24,4 per cento, inferiore di un punto esatto rispetto a quanto ottenuto da Pier Luigi Bersani nel 2013 e di ben 16 nel confronto con le Europee del 2014. Verdini,invece, dopo aver fatto e disfatto liste elettorali, l’ideatore del «patto Nazareno» si escluderà prima per non farsi depennare dopo. Non è tipo da farsi illudere e illudersi, non attenderà dietro una porta per conoscere la sua sorte: ha vissuto questa esperienza per molti anni a parti rovesciate. È il ruolo per il quale è diventato famoso fuori e dentro Forza Italia, dove c’è chi lo ricorda e segretamente lo chiama con tono preoccupato: «Dovresti tornare a fare le liste».
Il fascismo fa paura. Quasi metà degli italiani, per la precisione il 46%, pensa che il fascismo oggi sia (molto o abbastanza) diffuso nel Paese. È quanto emerge dal sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. È un dato sorprendente. In parte, inatteso. Effetto delle ripetute iniziative estreme ed estremiste di CasaPound e dei suoi “amici” — e competitor. Per prima, Forza Nuova. Soggetti che si richiamano a una storia che pensavamo dimenticata. Comunque, condannata. Dalla “Storia” stessa. E invece ritornano. Gruppi e formazioni che ostentano riferimenti al fascismo. Senza vergogna. Al contrario. Li esibiscono in modo convinto. E, per questo, esercitano la minaccia come strumento pubblico. Ma una “misura” tanto larga sottolinea come l’azione dei soggetti politici che si richiamano al fascismo vada ben oltre i gruppi estremisti che Il disincanto dei cittadini colpisce il gradimento di tutti i leader. Gentiloni scende al 45%, Di Maio è secondo con il 34%, Grasso al terzo posto con il 32% esibiscono apertamente questa bandiera. Si tratta, infatti, di componenti circoscritte. Però fanno molto “rumore”. A causa delle provocazioni eclatanti. Ma, soprattutto, perché scavano nella memoria del Paese.
Laura Boldrini: «La terza carica dello Stato deve essere presente quando si affermano e ribadiscono i valori dell’antifascismo sui quali è costruita la nostra Costituzione. Bisogna ripartire dalla nostra storia: la liberazione dal nazifascismo non fu un evento “di parte”, ma un atto corale dell’Italia che si ribellava al regime per riprendersi la libertà. Tutte le forze politiche democratiche dovrebbero fare fronte comune contro chi si richiama a quel regime che fu di sopraffazione, di annientamento dei diversi, di discriminazione nei confronti delle donne».
Politica estera
Brexit. Questo non era l’inizio della fine, ma soltanto la fine dell’inizio: la parte più difficile viene adesso. E consiste nel delineare il rapporto finale che la Gran Bretagna avrà con la Ue. I tempi sono stretti: restano dieci mesi per trovare un accordo di massima, prima che si passi alle ratifiche parlamentari. Ma nessuno crede seriamente che si faccia in tempo a mettere nero su bianco quella «partnership profonda e speciale» che Theresa May dice di voler costruire con l’Europa. Per un bel pezzo la Gran Bretagna resterà di fatto nell’Unione: e cosa succederà alla fine dipenderà molto dagli equilibri politici a Londra. Se i laburisti andassero al governo e si registrasse uno slittamento dell’opinione pubblica, tutto potrebbe tornare in gioco. Ci sono voluti nove mesi di negoziati, una settimana all’ultimo respiro e una notte costellata da sms e telefonate tra Bruxelles, Londra, Dublino e Belfast per un accordo che premia l’Unione, per una volta compatta e capace di costringere Londra a cedere sui punti sensibili del divorzio del secolo. «Ma il difficile viene adesso», avvertiva il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. L’accordo era già chiuso lunedì scorso, Juncker lo aveva cucinato nel weekend con due telefonate al premier irlandese, il Taoiseach Leo Varadkar. Per garantire un filtro alle frontiere esterne dell’Ue senza ripristinare il confine tra Eire e Ulster capace di riaccendere gli scontri tra cattolici e protestanti, si era pensato a un impegno volontario di Belfast a mantenere le regole Ue sul mercato interno.
Palestina – Israele. Un morto, centinaia di feriti, lancio di un razzo e sirene anti-missile che risuonano: è il bilancio della giornata di proteste e scontri tra Israele e i Territori palestinesi, all’indomani dell’annuncio degli Usa di spostare la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Il grande imam di Al Azhar, Ahmed Al Tayyib, massima istituzione dell’islam sunnita, ha chiesto un’azione immediata e decisa per «bloccare la decisione Usa di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme». Interventoa cui fa seguito, con maggior risonanza, quella degli ambasciatori Onu di 5 Paesi europei (Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Svezia) che hanno letto una dichiarazione comune dicendosi in «disaccordo» con la decisione di Trump perché «non è in linea con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e non è di aiuto alla prospettiva per la pace nella regione».
Il leader del movimento islamico Hamas da Gaza giovedi aveva invocato la mobilitazione generale nei «giorni della rabbia». A lui aveva fatto eco da Ramallah il presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, che comunque fa appello all’Onu per chiedere una condanna internazionale della mossa americana.
Economia e Finanza
Tari. A due mesi dall’esplosione del problema, tutto è pronto: c’è la certificazione del ministero dell’Economia dell’obbligo di indennizzo, ci sono i moduli per le richieste. Ma l’operazione non decolla. Perché i Comuni non sanno come calcolare gli indennizzi, né soprattutto come fmanziarli. II principio della Tari è che il totale finanzia il costo del servizio: siccome non può andare in perdita, né essere coperto con fondi del bilancio comunale, gli euro rimborsati ai contribuenti dovrebbero essere chiesti a tutti gli utenti. Ma questa strada è stata chiusa dal governa E resta inoltre da risolvere fl problema dei conguagli. La tassa di troppo chiesta sui garage è stata infatti “scontata”agli altri immobili, comprese le case di cui questi garage sono pertinenze. Ma la querelle sui rimborsi della Tari illegittima ha un precedente. Più pesante sul piano finanziario, e poco incoraggiante su quello dei diritti dei contribuenti. Otto anni fa la Corte costituzionale (sentenza 238/2009) ha dichiarato l’illegittimità dell’Iva che più di sei milioni di famiglie in migliaia di Comuni hanno pagato a lungo sulla Tia, la «tariffa d’igiene ambientale» che è una delle tante antenate della Tari. Nel 2012 la Cassazione (sentenza 3756) ha sancito il diritto al rimborso, ribadito a Sezioni unite nel 2016 (sentenza 5078). Ma un sistema di indennizzi non è mai partito. E per riavere i soldi i cittadini devono ingaggiare un’infinita battaglia giudiziaria, con una selezione darwiniana che esclude i contribuenti meno motivati e così alleggerisce il peso peri conti pubblici.
Ministero unico delle Finanze. La proposta di Jean-Claude Juncker è «una buona base di partenza» per la riforma dell’Unione monetaria ed economica ed è positivo che «il Fiscal Compact non sia inserito nei Trattati ma sia la base di discussione per una direttiva europea». Paolo Gentiloni apprezza il lavoro del presidente della Commissione Ue ma avverte subito che «non abbiamo bisogno di un ministro unico delle Finanze che sia un controller dei conti dei Paesi mediterranei» mentre serve una figura legata «da una parte a una innovazione nella politica economica europea che abbia come obiettivi la crescita e la convergenza e, dall’altra, sia legata alle istituzioni democratiche europee, Parlamento e Consiglio».
«C’è una grande domanda di Europa, ora interroghiamoci sulla qualità delle risposte» è la sfida di Gentiloni: Bene che ci sia un ministro unico dell’Economia europea, a patto che non «sia un controller dei bilanci degli altri Paesi, in particolare del Mediterraneo» ha aggiunto, rivendicando che l’Italia, nel rispetto delle regole, metterà a segno una crescita «più vicina al 2% che al previsto 1,59 6».