Antonio Troise
Dovremo abituarci anche noi alla pratica del “whistleblowing”, termine inglese che letteralmente significa “soffiatore di fischietto” ma che può essere tranquillamente tradotto con “soffiata”, denuncia anonima o forse, con un’accezione ancora più negativa, “delazione”. L’archetipo contemporaneo è il famoso “wikileaks”, con le “soffiate” che hanno messo nei guai mezza amministrazione americana, provocando uno scandalo internazionale. In Italia, molto più modestamente, ora che la legge è stata finalmente approvata, l’obiettivo è quello di mettere un freno ad una corruzione galoppante, che costa alla collettività decine di miliardi ogni anno in termini di maggiori costi e minore efficienza. Da ora in poi l’Anac, l’Authority di Cantone impegnata proprio su questo fronte, ma anche la magistratura ordinaria e quella contabile potrebbero avere occhi e orecchie indiscrete un po’ dovunque, dagli uffici pubblici e privati, pronti a captare eventuali comportamenti illeciti o irregolari. Un bel passo in avanti, sicuramente, per un Paese dove la prassi è quella di voltarsi dall’altra parte o, al più curare e difendere il proprio orticello evitando di ficcare il naso in quello del vicino.
Detto questo, però, la legge (nata anche dal tentativo del Pd di seguire l’onda populista del Movimento 5 Stelle) presenta almeno un paio di incognite. Prima di tutto, il capitolo delle tutele. E’ vero che il dipendente che denuncia sarà messo al riparo da eventuali ritorsioni. Ma il punto di forza del sistema, soprattutto nel mondo anglossassone, è l’anonimato. La possibilità, cioè, di non far conoscere ad imputati e difensori il nome di chi li accusa. Un problema che rischia di indebolire l’impianto della nuova norma o, quanto meno, di disinnescarne gli effetti. La pratica del whistleblowing, infatti, è da tempo stata adottata da varie amministrazioni locali. Ma raramente ha sortito risultati incoraggianti, forse anche a causa dell’assenza dell’anonimato.
La seconda incognita riguarda anche i possibili abusi di questo strumento. Basta poco, infatti, per rovinare una reputazione o, peggio ancora, per consumare piccole vendette private all’interno del perimetro di un ufficio. Bisognerebbe fissare meglio le regole e stabilire con rigore in che maniera può e deve andare avanti una “soffiata”, magari basata più su sensazioni o cose intraviste che su elementi di prova certi e verificati.
Insomma, ben vengano i “soffiatori” in una burocrazia dove la corruzione è anche figlia del disinteresse e dell’apatia. Ma per avere un sistema efficace di “whistleblowing” occorrerebbe, forse, fare qualche passo in più. Evitando di farsi affascinare solo dal modello anglossassone o dalle sirene della demagogia e puntando ad un provvedimento che tuteli tutti e prevenga gli eventuali abusi.
Fonte: L’Arena