Un detenuto anziano e malato ha comunque il «diritto di morire dignitosamente». Anche se si chiama Totò Riina. Che poi, per sostenere che è ancora il pericoloso capomafia che fu, bisogna avere qualche prova recente della sua capacità di comandare; non basta ribadire che è il capo di Cosa nostra, come fosse una realtà immutabile dopo 24 anni di galera. Per queste ragioni la prima sezione penale della Corte di cassazione ha accolto l’istanza del padrino corleonese e ordinato al Tribunale di sorveglianza di Bologna di motivare meglio la negazione del differimento della pena al pluriergastolano ottantaseienne che vive al «carcere duro» dal gennaio 1993. Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia, non cambia idea: «Totò Riina deve restare in carcere e soprattutto deve rimanere in regime di 41 bis». E aggiunge: «Abbiamo elementi per ribadire che Totò Riina è il capo di Cosa nostra. Non abbiamo mai negato che sia affetto da una patologia pesante, ma si tratta di uno stato di salute che può essere adeguatamente trattato nell’ambiente carcerario».