Un po’ lo dicono per sberleffo, con gusto polemico, o forse lo dicono per scaramanzia, certo con spirito contundente, chissà, eppure a circa un mese dalla scissione di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, molti parlamentari del Pd quando incrociano i colleghi di Mdp sorridono, “ma questi quand’è che se ne vanno davvero?”. Ed è una battuta, ma anche no, perché i deputati e i senatori scissionisti non sono solo fisicamente negli stessi luoghi (il gruppo, le sezioni) del Pd, ma continuano a promettere senza alcun problema la fiducia al governo, e continuano a comportarsi da corrente critica, e di minoranza, del partito che pure hanno abbandonato. “Non fanno che parlare di noi. Sembra che partecipino pure al congresso”, diceva alcuni giorni fa Matteo Orfini, forse preoccupato, come Andrea Orlando, di un effetto che i giovani turchi stanno registrando nell’andamento elettorale all’interno dei circoli. Dice infatti un sostenitore di Orlando, il principale sfidante di Renzi alla segreteria, uno molto attento alle dinamiche congressuali: “Temo sia passato il messaggio che Orlando sia il candidato di Bersani. Cosa che ovviamente non è. Ma un po’ viene percepito così. E infatti siamo un po’ sotto le stime, stiamo prendendo meno voti di quelli che era lecito aspettarsi”.
Così, persino Nico Stumpo, uno degli alleati più leali di Bersani, attentissimo com’è a non straparlare mai, a non farsi sfuggire nulla, si fa scappare un sorriso quando in Transatlantico viene messo in mezzo, e spiritosamente qualcuno gli dice: “Dai, ammettilo, è la scissione più strana della storia della sinistra. State ancora lì. Non è cambiato niente. Con quelli del Pd continuate persino a insultarvi dalla mattina alla sera. E alle amministrative sarete alleati. Tutto all’incirca come prima”. E non è solo una sensazione, non è una questione estetica, o una battuta.
Intanto Pierluigi Bersani, leader di Mdp: “su farmaci ed energia meglio le proposte dei Cinquestelle, se pensiamo di creare un’unione sacra contro i populisti li facciamo soltanto decollare verso la vittoria”. E sulla situazione interna al Pd: “Il Partito democratico ormai non riesce a animare il centrosinistra, è visto come il partito dell’establishment. Non ho rimpianti, anzi. Mi rimprovero di aver fatto troppi sforzi per rimanere. Non è stata una scissione. La nostra gente era già scissa. Ho cercato di far intendere cosa stava accadendo, ma era impossibile parlare. E allora, come diceva Berlinguer, quando non sai cosa fare fai quel che devi. Il Pd di Renzi non è in condizione di animare le risorse del centrosinistra, anzi è respingente. Senza muovere quelle risorse, civiche, morali, culturali, vincerà una destra incombente. Noi di Articolo uno non bastiamo anche se non sarà poco quello che raccoglieremo, vedrete. Ma dobbiamo portare quello che abbiamo in un campo più vasto. Chi si riconosce nel centrosinistra, da qui al 2018, faccia qualcosa, ci dia una mano a creare un terreno cornune. Il Pd purtroppo non è in grado di affrontare il bisogno perché pretende di riassumere tutto il centrosinistra nel partito e il partito nel capo: è una drammatica illusione pensare che sarà Renzi a fermare certi fenomeni”.