di CHRISTIAN MARRA
“Signuri Questuri, mi dispiaci la morti di Petrosino perché era troppo bravu e perciò vi fazzo sapiri che un certo Paolo Orlannu era troppo nemicu di Petrosino perché è lu capo della mafia di Brooklyn. Lu fici ammazzari issu da due Partinicoti che spariru da Brooklyn perché ficiru bancarutta e si portarono via tanti dinari. E Petrosino li cercava. Firmato: un siciliano onorato”.
La lettera diceva più o meno così. Dicevano tutte più o meno così. Di lettere come quella, il questore di Palermo Baldassarre Ceola, ne aveva ricevute varie. E tutte concordavano su un fatto: ad uccidere Petrosino erano stati Carlo Costantino e Antonio Passananti.
Quando ricevette Petrosino, al suo arrivo a Palermo, il signor Questore ebbe subito chiaro in che modo sarebbe andata a finire quella storia.
Un uomo testardo
Perciò aveva anche cercato di metterlo in guardia, il forestiero, ma niente da fare, era proprio come aveva sentito dire, testardo e tenace come la miseria. “In troppi sono i delinquenti che arrivano nel mio Paese, e tutti con il passaporto pulito”, esordì senza convenevoli l’americano.
Il signor Questore guardò Petrosino da dietro una pila di carte e faldoni: “I passaporti che rilasciamo sono tutti in regola con la legge”
“Cambiate la regola, allora. Continuiamo ad arrestare criminali che, pur essendo pregiudicati, presentano certificati penali perfettamente puliti”.
“Ovviamente lei ignora il nostro istituto della riabilitazione. Ci piace dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato”
“Allora evitate che accada giusto prima che partano per l’America”. Al signor Questore non piaceva ricevere lezioni di giurisprudenza.
Nonostante Petrosino fosse in città da qualche tempo, ormai, non erano ancora riusciti a capire dove abitasse.
“Darò subito ordine che vi sia affidata una scorta personale. Vi accompagneranno fino a casa vostra: avete molti nemici a Palermo”
“Vi sono molto grato, ma non voglio essere scortato. A Palermo ho anche degli amici. Quando vorrete parlarmi, cercate di me al consolato americano”.
12 marzo 1909
Erano le sette di sera del 12 marzo 1909. Petrosino lasciò il suo alloggio all’hotel de France per andare a cenare al caffè Oreto. “U mutanghero”, diceva sottovoce l’oste indicandolo ogni sera alla moglie con un cenno del capo. Ordinò pasta al pomodoro, pesce arrosto, patate fritte, formaggio col pepe, frutta e mezzo litro di vino. Aveva quasi finito di cenare, quando al suo tavolo si sedettero due uomini. Non erano di Palermo. Siciliani, questo sì, ma non di Palermo. L’oste, altrimenti, li avrebbe riconosciuti. Scambiarono qualche parola, poi si avviarono verso l’uscita. Petrosino si fece portare subito il conto: 2 lire e 70 centesimi, tre con la mancia. Pagò e uscì.
Dall’osteria, i quattro colpi si sentirono nitidamente, segno che il tenente americano non aveva fatto molta strada. Uno lo prese alla spalla, uno alla gola e una alla guancia destra, mentre il quarto finì nella stoffa della giacca. Erano quasi le nove di sera del 12 marzo 1909. Chi era lì racconta di due uomini che si dileguarono nella notte tra la folla che fuggiva spaventata. A correre nel senso opposto, verso il corpo dell’uomo ormai riverso nel suo sangue, solo un giovane marinaio. Quando arrivò, però, Petrosino era già morto.
Vecchia storia
“Aviti gana di babbiare? Che minchia di storia mi state raccuntannu? Che issu è morto si sape, chi lo uccisi, pure…che mi venite a dire?”.
Il vecchio lo guardò come se quella storia non gli appartenesse. I Lancaster e gli Sterling degli inglesi erano talmente vicini che facevano tremare le fondamenta del carcere, e dalle sbarre della cella quegli stormi neri parevano volessero migrare passando proprio sulle loro teste. Il giorno del giudizio sembrava ogni istante più vicino.
“È davvero una storia vecchia, questa. Ma non è una di quelle storie che si dimenticano. Io non l’ho dimenticata. E nemmeno voi, ne sono sicuro”.
Il vecchio si scurì in volto. A quella storia non aveva più pensato da tempo. Petrosino non era siciliano, dicevano all’epoca, cosa era venuto ad impicciarsi lui di cose come quella. Girava voce che quando arrivò in America, il tenente Petrosino aveva iniziato a lavorare come spazzino: all’inizio, non ce lo volevano nemmeno in polizia. Pareva un controsenso, un italiano nella polizia. Non ci si poteva fidare degli italiani, questo i poliziotti irlandesi di New York lo sapevano bene: ed era proprio questo che gli cambiò la vita, fu proprio questa sensazione che diede a Petrosino la forza di combattere la sua personale guerra contro la Mafia. Stava portando la guerra in casa del nemico. Ormai non si trattava più di ripulire le strade di Brooklyn, o di anticipare le mosse degli italiani disonesti. Non stava tagliando i tentacoli. Petrosino stava mirando dritto alla testa.
“E la testa eravate voi, don Vito”.
Il vecchio ebbe un sussulto. Le altre guardie carcerarie stavano evacuando la struttura prima che i bombardieri ne cancellassero ogni traccia.
“Ero ancora giovane, è vero, quando avvenne. Ma ho ancora negli occhi l’ultima espressione del tenente americano. Tutti videro due uomini allontanarsi di corsa. Ne videro fuggire due perché il terzo non fuggì, anzi, quasi non si mosse. Sapeva di non avere più nulla da temere, ora che Petrosino era stato ammazzato”
Allora don Vito parlò, in italiano, quasi per il rispetto che si doveva a quanto stava per dire. Pareva quasi parlasse di un vecchio amico scomparso anzitempo, quando disse: “In tutta la mia vita ho ucciso solo una persona. Petrosino era un avversario coraggioso, non meritava una morte infame sotto i colpi di un sicario qualunque”.
Rimanere in carcere
Dopo aver parlato, Don Vito Cascio Ferro tese un braccio alla guardia perché lo aiutasse ad alzarsi. Ormai il vecchio non camminava da tempo. Una volta un solo cenno di quella mano poteva dare e togliere la vita.
Intorno, più assordante dei Lancaster e degli Sterling inglesi c’era solo il fragore degli altri carcerati che correvano lungo i parapetti, si lanciavano giù dalle scale e si gettavano in strada.
Ma il vecchio no. Non si mosse, come dopo aver sparato, trent’anni prima, alle spalle di Joe Petrosino. Rimase qualche istante con il braccio teso, in attesa che la guardia lo aiutasse ad alzarsi.
“Lui avrebbe voluto che voi rimaneste in carcere il più a lungo possibile”, disse, e se ne andò.
Era il 1942, e dopo il passaggio dei bombardieri alleati su Napoli, del penitenziario non rimase quasi più nulla.
Joe Petrosino, il protagonista di questo racconto, era nato a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860, di famiglia modesta, non povera: con il suo lavoro di sarto, il padre era riuscito a far studiare i suoi quattro figli maschi; emigrò con la famiglia a New York nel 1873 e crebbe nel sobborgo di Little Italy. Proprio seguendo una pista che avrebbe dovuto portarlo ad infliggere, forse, un decisivo colpo alla Mano Nera, Petrosino era giunto in Italia. La missione era top secret, ma a causa di una fuga di notizie tutti i dettagli furono pubblicati sul New York Herald. Petrosino partì comunque nell’erronea convinzione che in Sicilia la Mafia, come a New York, non si azzardasse a uccidere un poliziotto…