di Pasquale D’Angelo
Caro direttore,
Mario Draghi no. Perché – dicono in molti – fa troppo bene il suo lavoro. Meglio lasciarlo lì dove pare voglia rimanere fino a quasi tutto il decennio. E infatti le misure adottate dalla Bce apportano sicuri benefici all’economia. Anche se, invero, quelle simili, già adottate negli USA, hanno generato evidente grande impulso per l’economia – e solo a distanza di anni – soltanto in virtù di una strategia composita non certamente improntata alla austerity, che in Europa invece non accenna a emergere, né si intravede all’orizzonte.
Ciò, purtroppo, perché di ridurre la pressione fiscale non se ne parla proprio. Infatti Berlino continua a pretendere di contare quanto Bruxelle,s nonostante lo spauracchio dell’esito elettorale greco. E perché l’Europa riscuote da parte dei suoi cittadini livelli sempre più bassi di fiducia, per non parlare della misera “laicizzazione” del Continente che ci espone all’irrazionale crescente prevaricazione da parte di cellule deviate della cultura islamica. Perché nel nostro Paese la novità langue, mentre si procede con isolate iniziative e “riformicchie” (per tutte: una riforma del Senato che lasci in piedi un ruolo delle Regioni – le vere grandi piaghe – non serve a nulla…). Perché ridurre la massiccia pletora burocratica e conseguentemente la corruzione (altro che allungamento della prescrizione…!) resta un miraggio. Perché la Giustizia andrebbe riformata con investimenti, con serie revisioni e una scrollata a disfunzioni in parte riparabili già solo con una seria impostazione manageriale (come già meritoriamente accaduto a Torino anni fa, dove, pur in assenza di riforme, i processi civili cominciarono a durare molto meno che prima) e con qualche disincentivo a infruttuose forme di protagonismo. Nonché con criteri innovativi che in qualche modo separino i magistrati che accusano da quelli che giudicano, che superino la illusoria garanzia (in favore della comunità onesta) costituita da una obbligatorietà dell’azione penale che si è rivelata sempre molto discutibile negli esiti effettivi. Infine perché la dialettica pro e contro l’articolo 18, spesso incompetente, e comunque molto tardiva, quindi inutile, costituisce solo una patetica strumentale perdita di tempo a fronte dell’implacabile e impietosa continua trasformazione del mondo produttivo etc.
TOTO PRESIDENTE E VECCHI PRECONCETTI
Insomma Draghi è quanto mai fuori gioco per il Quirinale. Specie all’indomani del fatto, fresco “di giornata”, che la BCE ha sollevato gli Stati membri dal rischio anche solo di quella piccola frazione del 20%. Un fatto comunque epocale e che è da ascriversi soltanto alla grande abilità della sua eccellente ed eccezionale personalità, pur se scenari economici mai così critici dopo la “guerra”- rebus sic stantibus – restano comunque dietro l’angolo.
Così, in assenza anche della grande Emma Bonino, sempre di gran lunga in cima a ogni pregresso sondaggio tra i cittadini, ma che ciò nonostante verrà puntualmente e ancor più agevolmente tagliata fuori – questa volta con tanto di sentiti auguri per la guarigione dalla malattia – e al netto pure del salvatore della patria, che per aver dismesso gli abiti di tecnico e indossato improduttivamente quelli del politico si è precluso per sua stessa mano la partecipazione alla competizione, la rassegna dei nomi che residua nei media per la candidatura alla Presidenza della Repubblica non può che lasciare indifferente buona parte di noi italiani: a quanto pare, non meritiamo ancora l’elezione di un capo di Stato di vero grande prestigio.
Certo, tra i contemplati nella consueta “chiacchiericcia” orgia radiotelevisiva ce ne sono molti ottimi ed eccellenti. Ma che non spiccano per personalità e carisma, in un momento storico e in una congiuntura politica in cui invece un uomo con la capacità di conquistarsi meritatamente l’affetto e la stima del popolo tutto, insomma un Pertini, sarebbe forse auspicabile per tanti motivi anche de iure condendo.
Anche a causa dell’ignoranza giuspubblicistica di alcuni giornalisti e conduttori radiofonici e televisivi (talvolta di rilievo, i quali – senza aver forse mai studiato – cianciano di inesistenti prerogative del Presidente della Repubblica deformandone così il profilo istituzionale) cresce nell’immaginario collettivo la concezione di una Istituzione che potrebbe in futuro portare a profilarne l’elezione diretta da parte dei cittadini.
IN ATTESA DELL’ITALICUM
Peraltro un Presidente che non avesse una forte personalità, a fronte delle sostanziali capacità sussidiarie e della sostanziale influenza di cui è stato capace il Presidente uscente, evidenzierebbe ancor più l’esigenza di riformare un Istituto che potrebbe ancora trovarsi a dover compensare situazioni di fatto come quella costituita dal gravissimo difetto che ha accompagnato tutta la storia repubblicana: l’assenza di un meccanismo elettorale che assicuri una chiara maggioranza parlamentare e un esecutivo che la rappresenti e che ne traduca le decisioni con poteri e prerogative degne di questo nome, che senza bizantinismi e pastrocchi, alla fine del periodo di governo, lasci giudicare all’elettorato attivo se sia il caso di confermarla assieme al governo che ne è espressione o di mandare tutti all’opposizione e così via. Si vedrà in che consisterà l’ ”Italicum” – già il nome porta orticaria – con i suoi premi di maggioranza, ma nel maggior partito i dissidi sempre più evidenti non preludono certo a uno scenario politico finalmente dignitoso, che evidentemente il Paese non merita.
QUANDO C’ERA LA PRIMA REPUBBLICA
Così oltre a nomi meno popolari, vediamo e sentiamo menzionare i soliti cachemire e doppiopetto, sempre ben deprivati dalle colonie di miceti e dalla polvere mista alla obbligatoria cipria dei triti studi televisivi. E così, quello che è ossessionato dai comunisti vorrà ottenere dal capo del Governo un nome che con quel mondo – trasformazioni di sigle, forma e sostanza a parte – non abbia nulla a che fare, quell’altro, accusato di averlo tradito, ora vuole il politico puro e non un tecnico. In discreta, speranzosa e composta attesa resta poi quell’altro ancora che dopo aver militato nel P.C.I., rivestendo incarichi di vertice, ci rivelava poi di non essere mai stato comunista e prometteva di trasferirsi in Africa; c’è poi quello che invece non ha mai rinnegato di essere comunista, ma che da più di due decenni, tutto sembra fuori che uno di sinistra, e tutto a danno di una inevitabile poca chiarezza di personalità; quell’altro, un fenomeno della natura, straordinariamente competente, che però infastidisce per i troppi incarichi e per il brutto ricordo del prelievo forzoso dai conti correnti nel ’92; e ancora: l’ex magistrata, abile, misurata, bella e competente che però si teme col tempo possa perdere il baricentro a manca; quell’altro poi che pare ci abbia traghettato nell’ Euro con un tasso di cambio alquanto discutibile che, tra lo smorto e il preteso suadente, ci propina a ogni intervista banali moralismi…e così via.
SGARBI DOCET
Perché no allora Riccardo Muti? Certo l’intelligentissimo, coltissimo, brillantissimo Vittorio Sgarbi, spesso irriso, detestato e snobbato da chi soffre complessi di inferiorità, non poteva avere la pacatezza di proporlo con minore enfasi e quindi, dato il contesto, con maggior efficacia. Ma le cose sentite (almeno) nello studio della Istituzione Santoro giovedì scorso dalla bocca del critico d’arte andrebbero riascoltate con umiltà e senza preconcetti da tutto l’arco costituzionale.
Ogni trascrizione di quanto dice Sgarbi non potrebbe che perdere incisività, però va aggiunto: 1) E’ ora che la classe dirigente (che si limita solo a ostentare attenzione alla cultura del nostro Paese e niente più) guardi inforcando le giuste diottrie al naso a chi rivesta con somma intelligenza e competenza ruoli nel campo dell’arte e della cultura. 2) A chi nemmeno dopo un passaggio dall’ oculista manifesti di non sapersi affrancare da pregiudizi di sorta, si rammenta ad esempio che mentre Regan, un attore – piaccia o no – risollevava le sorti economiche degli Stati Uniti, durante la presidenza Clinton, invece, si ripristinavano le regole bancarie che portarono alla crisi del ’29 – poi provvidenzialmente sovvertite appena dopo – preparando alla crisi economica mondiale che da anni ci attanaglia ancora tutti, in un epoca in cui ormai imporre di nuovo normativamente alle banche di scegliere tra attività finanziaria (speculativa) e attività bancaria pura (a sostegno della produzione e delle famiglie) sarà sempre più difficile. 3) Non c’è Capo di Stato al mondo che non venga sostenuto dalla competenza dei suoi collaboratori, né il nostro può facilmente restare immune dall’influenza dei vertici degli uffici della Presidenza, e pertanto esigere che il Presidente sia soltanto un giurisperito non è cosa ragionevole. 4) Peraltro un uomo della statura propria di Riccardo Muti senz’altro avrebbe mezzi molto più che sufficienti per studiare esaustivamente il diritto costituzionale, con profitto certo superiore rispetto a quello di diversi politici, giornalisti e conduttori 5) i quali sovente attribuiscono al Presidente poteri giuridici che questi non ha 6) finendo per sopravvalutare il ruolo istituzionale del Capo di Stato in Italia.
I (VERI) POTERI DEL PRESIDENTE
Questi invero non ha poteri di indirizzo politico, se non limitatamente al profilo dell’indirizzo politico costituzionale, e tali poteri, alquanto limitati, (al di là degli atti cd. presidenziali di nomina, di relativa importanza, e del potere di scioglimento delle camere, che è quasi caso di scuola, e di alcune cariche alquanto formali) si svolgono con provvedimenti a cui il Parlamento da un lato (promulgazione leggi) e il Governo e i singoli Ministeri (atti) dall’altro possono comunque opporre nuovamente la propria volontà atta a confermare le proprie precedenti decisioni, superando così in via definitiva la volontà del Presidente.
L’equivoco che pare sempre più incalzante poi riguarda il potere di nominare il primo ministro che è invece un provvedimento quanto mai formale, perché nessun primo ministro può essere nominato e nessun governo costituito, senza che vi sia alla base una maggioranza che gli accordi la fiducia.
Orbene, a destra e a manca, mai come ora, si invoca un Presidente super partes, di profilo internazionale (queste le istanze più ricorrenti e comuni a tutte le parti).
E allora? Fermo quanto già rappresentato dal brillantissimo critico d’arte, c’è forse un politico italiano – oltre Emma Bonino – che abbia un profilo più internazionale di quello di Riccardo Muti? E chi tra i politici può meglio rappresentare l’unità nazionale (che è la prerogativa più popolare e suggestiva del nostro Capo dello Stato) più del grande maestro? Quanti possono affermare di conoscere le lingue meglio dell’erede di Toscanini? C’è forse qualcuno che (per quanto possa fare un Presidente della Repubblica) a Bruxelles e a Berlino sia in grado di polarizzare più sguardi e concentrare più ascolti? E un Italia che potrebbe un po’ risollevarsi anche solo valorizzando al massimo lo straordinario patrimonio artistico, culturale e paesaggistico sarebbe meglio rappresentata da Muti, oppure (per fare un nome molto ricorrente) dal pur eccellentissimo Mattarella?
COMUNQUE VADA…
Comunque vada, poi, tutti quelli che reclamano un giurisperito al Quirinale – talvolta pretestuosamente e pur non avendo talvolta sufficiente formazione giuridica – si mettano l’anima in pace: il grande italiano, già insignito della laurea honoris causa in Letterature e Culture Comparate alla gloriosissima Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, impiegherebbe solo parte del settennato a diventare dottore h.c. anche in giurisprudenza!