E’ inutile aspettarsi miracoli. Il Jobs Act approvato ieri, in via definitiva, dal Parlamento, non è la bacchetta magica in grado di risolvere d’un colpo i problemi del paese. Né di dare una risposta immediata a quell’esercito di disoccupati, fatto soprattutto di giovani, che ha fatto schizzare a livelli mai raggiunti prima il tasso dei senza lavoro. Ma, soprattutto, non prevede nulla per il Sud, dove si radica la stragrande maggioranza dei disoccupati. E dove più di un giovane su due è ancora a spasso.
Ma sarebbe, nello stesso tempo, sbagliato minimizzare la riforma portata a casa da Renzi dopo molti mesi di battaglia dentro e fuori le aule di Camera e Senato. Prima di tutto, le nuove norme vengono incontro alle richieste avanzate più volte da Bruxelles sul fronte del lavoro. Il varo della nuova legge consente a Roma di acquisire crediti importanti in Europa, soprattutto sul versante della credibilità. La riforma del lavoro, con la forte iniezione di flessibilità, sia in entrata ma soprattutto in uscita, con la cancellazione (sia pure parziale) dell’articolo 18, è il segno concreto di un Paese che vuole uscire dalle secche dell’immobilismo e mettere mano a quei cambiamenti strutturali del sistema in grado di dare una scossa all’economia.
Ma il Jobs Act è importante perché conferma la strategia del primo leader “post-ideologico” sfornato dalla sinistra. Un premier non che non decide, solo ed esclusivamente, tenendo conto della logica dell’appartenenza o delle classi sociali di riferimento, ma agisce in nome e per conto di un interesse generale che sta gradualmente abbattendo i vecchi steccati della politica. Da questo punto di vista, il braccio di ferro vinto con la minoranza di sinistra ma, soprattutto, con la Cgil di Susanna Camusso, rappresenta una partita fondamentale per il futuro di Renzi a Palazzo Chigi.
Il cammino per rimettere in sesto il Paese e creare nuova occupazione resta, comunque, ancora agli inizi. La sfida delle riforme è tutta in salita. Lo stesso Jobs Act, prima di essere tradotto in misure operative, dovrà superare il sentiero, irto di ostacoli, delle norme e dei regolamenti attuativi. Un sentiero che, negli anni, ha fatto morire molte delle riforme avviate dagli esecutivi. Ma ora, rispetto al passato più o meno recente, la situazione è completamente diversa. Con un tasso di crescita ancora fortemente negativo, con oltre 150 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo e una disoccupazione che non accenna a calare, la strada delle riforme è l’unica a disposizione del governo per evitare un clamoroso flop. Dal 2008 al 2013, nel periodo più duro della più grave crisi degli ultimi 80 anni, il Pil europeo è calato dello 0,8%, in Italia dell’8,9%, dieci volte in più. La recessione ha colpito duro. Ma soprattutto nel Paesi che hanno fatto poco per cambiare pelle e affrontare la nuova situazione dell’economia mondiale. La riforma del mercato del lavoro, da questo punto di vista, è solo un primo passo per risalire la china. Ma è un passo essenziale.