di Claudio D’Aquino
Nel Mezzogiorno d’Italia vive un terzo della popolazione italiana: oltre 20 milioni di abitanti. La sua estensione territoriale raggiunge il 40% dello spazio vitale italiano. Eppure qui si concentra appena un quinto della ricchezza nazionale. E mentre la disoccupazione ufficiale è al 12,6 per cento della disoccupazione ufficiale, quella giovanile raggiunge la drammatica cifra del 43,3 per cento (dati EUROSTAT di aprile 2014). Perché non esplode, perché non scoppia una rivoluzione o una guerra civile? “Perché qui il sommerso fa da ammortizzatore sociale”, spiega Alfonso Ruffo nella rubrica “Benvenuti al Sud del Sole 24 ore di domenica 24 agosto. Sommerso e criminalità trainanti nella cosiddetta “economia non osservata” producendo il doppio effetto di distribuire pronte risorse e di infettare l’ambiente. Classico rimedio peggiore del male, perché consente di far qualcosa per sopravvivere, ma nega la possibilità di vivere.
Economia sommersa ed economia criminale compongono il 40 per cento della ricchezza del Sud. In soldoni, si tratterebbe di oltre 130 miliardi che ci sono ma non si vedono. In un modo o nell’altro, tutti metto il piatto a tavola e questo contribuisce ad affievolire il disagio: ecco perché la pentola a pressione del malessere del Sud non scoppia. Il divario con il Centro Nord in realtà è minimo quando si guarda alla economia del crimine: 11% al Sud, 10% nel Centro Nord. Si allarga molto, invece, quando si passa al sommerso, molto più consistente al Sud: 27% contro il 18 per cento italiano e il 16 per cento europeo. “La linea di confine – scrive ancora Ruffo – tra le due economie nascoste è molto labile. Chi si immerge per necessità, diventa subito un soggetto a sovranità limitata, debole e ricattabile. Facilmente preda di appetiti robusti e inconfessabili. Lo Stato è un gendarme da cui guardarsi e il credito bancario un’illusione per mancanza di carte da poter esibire. E’ facile cadere nella rete della tentazione o del bisogno”.
Ma quanto vale l’altro Mezzogiorno, quello difende il suo posto al sole dell’economia osservata? Vale 317 miliardi, cioè quasi due volte e mezzo il “contributo” recato dall’economia nera e illegale. Perché quando si parla di Mezzogiorno non se ne tiene conto e invece si pensa (quasi) sempre e (quasi) solo a crimine e sommerso? Perché in altri termini la ricchezza che sviluppano gli imprenditori modello vale meno, sul piano mediatico, delle imprese del crimine? Perché proprio coloro che sopportano la concorrenza sleale e gli effetti nefasti della economia illegale e faticano a difendere le posizioni e sono i primi a scomparire dal fuoco della lente dell’opinione pubblica italiana?
Non cogliere che nel Sud il primato va alla parte sana e seria, è un gioco perverso in cui finiscono per farsi del male anche l’Italia e l’Europa. Perché in tempi di globalizzazione, il mancato sviluppo del Sud è, in tutta evidenza, un problema italiano ed un problema europeo. In Italia e in Europa non si torna a crescere né contro il Sud, né senza il Sud. Le evidenze oggettive, infatti, dimostrano che, negli anni Novanta-Duemila, l’Italia è cresciuta (anche se in misura ridotta), quando è cresciuto il Sud. Inoltre non si considera mai abbastanza che come area di mercato il Mezzogiorno conta più di alcune nazioni dell’unione europea. In valore aggiunto manifatturiero, che nel 2010 del Sud Italia è stato pari complessivamente a 28,8 miliardi di euro: un valore superiore a quello detenuto nella manifattura d parte di nazioni come la Finlandia (27,1 miliardi), la Romania (26,9 miliardi), la Danimarca (23,2 miliardi), il Portogallo (20,2 miliardi) e la Grecia (19,4 miliardi).
Nel Sud la crisi sta producendo, oltre a tanto disagio, un riposizionamento della specializzazione produttiva, che si traduce in selezione delle aziende più dinamiche, emersione di settori e comparti competitivi sui mercati della globalizzazione. E’ un riposizionamento non governato né dalle Regioni (ognuna va per sé) né dal governo centrale, che manca di una strategia di sviluppo basata su una logica industriale da troppi anni.
Nel Sud ci sono nuclei di forza imprenditoriale significativi e non solo nell’agricoltura e il turismo, ma anche nella portualità e nella logistica, nonché in importanti comparti di industria manifatturiera. Ora, se è vero che la produzione nazionale non è la somma di produzioni locali isolate, bensì l’insieme di realtà territoriali con marcato carattere di interdipendenza, sia nei rapporti commerciali che produttivi, al Governo Renzi va richiesto non solo e non tanto una serie di provvedimenti puntuali ma una strategia in grado di sviluppare l’integrazione funzionale tra i settori manifatturieri.
Investire nel Sud, del resto, conviene anche al Nord. Investire con un indirizzo strategico strutturato, s’intende: non distribuire risorse a pioggia.
Una mai troppo citata ricerca di SRM (Associazione partecipata dal Gruppo Intesa Sanpaolo, che vede tra i soci fondatori l’Istituto Banco di Napoli Fondazione) ha dimostrato che per ogni 100 euro di investimenti effettuati nel Sud si verifica un “effetto dispersione” a beneficio del centro Nord pari a 40,9 euro.
Ancora: l’interconnessione è molto evidente e marcata soprattutto laddove l’architettura produttiva è organizzata in filiere. L’obiettivo di fondo è passare dalle filiere lunghe attuali ai meta-distretti interconnessi con spiccata tendenza all’internazionalizzazione. Ed quindi a partire da tali network, assistiti da adeguate infrastrutture di rete, che sarà possibile uno sviluppo dell’economia meridionale all’interno di una strategia di crescita nazionale efficace, omogenea, integrata, duratura.
Sull’agenda governativa per il Sud prossimo venturo non può mancare un argomento chiave: il tema cruciale della macroregione.
Oltre a essere troppo piccole, le Regioni del Sud sono troppe. Sono un numero tale che la parcellizzazione complica di molto l’interlocuzione con l’Unione europea sui fondi strutturali, divenuta macchinosa e complicata.
Ma il Governo Renzi è pronto ad accogliere la domanda di modernizzazione del Sud aggiungendo al pacchetto delle riforma istituzionali la formazione di macroregioni che ricalchino i collegi elettorali delle Europee?
E’ questa una scelta che migliorerebbe nettamente l’integrazione sistemica del Mezzogiorno infrastrutturale: va da sé che l’insieme vale più delle parti che lo compongono.
Un Mezzogiorno coeso e con 20 milioni di abitanti avrebbe maggior peso più di un Mezzogiorno diviso. La macro regione Sud si colloca infatti all’ottavo posto per numero di abitanti, al di sopra di 20 Stati membri dell’Unione europea a 28, dopo Francia, Germania, Spagna, Polonia, e appena al di sotto della Romania.
Il Meridione ha bisogno di una fase di specializzazione guidata. Una cosa più complessa di allocare sull’export un po’ di milioni. Si tratta di inserire l’Italia, mediante il Mezzogiorno, negli scenari globali dei nuovi mercati in crescita in tutto il mondo. Unico traguardo in grado di cambiare di segno i numeri del divario meridionale. E dare una prospettiva di vita degna ai suoi giovani, abbandonati all’unica prospettiva di un esodo massiccio per non piegarsi alla umiliazione di lottare per sopravvivere.
Nelle aree più arretrate del Sud di oggi, infatti, essi non hanno altra chance che lottare per sopravvivere, una lotta disperata, perché senza speranza.
Parafrasando Malaparte, potremmo dire, in conclusione: lottare per non vivere è l’essenza della competizione: è nobile, dignitoso, leale. Lottare per sopravvivere, invece, è una cosa orribile, umiliante, una necessità vergognosa. Non è questione di Nord e Sud. Ad ogni latitudine, gli uomini che talvolta sanno diventare eroici nella lotta per vivere, sono gli stessi che diventano capaci di qualsiasi vigliaccheria – e infamia e bassezza – nella lotta per sopravvivere.