di Claudio D’Aquino
Bisogna commissariare Napoli, come sostiene lo storico Giuseppe Galasso incrociando dal Corriere del Mezzogiorno una polemica con l’economista Massimo Lo Cicero, che dalle colonne del Mattino sembrava suggerirlo? O, piuttosto, a pensarci meglio, la soluzione finale è un’altra: uno scambio uno a uno dei napoletani con i tedeschi, gli olandesi, gli svizzeri, gli inglesi?
Domanda retorica (ma mica tanto) per introdurre il tema (ritrito) della società civile napoletana. Parola grossa, gonfiata a palloncino, entità metafisica. Dietro (dentro) la quale ci siamo noi, cittadini di Napoli, uno a uno. Parola cha andrebbe abolita per sempre, perché è uno scudo, una maschera, un velo pietoso. Una sublimazione che finisce per assolvere la società politica, che si scopre alla fine dei conti della stessa sostanza. E infatti che fa, da sempre, la società civile? Alle elezioni esprime esattamente “quella” classe dirigente, mandandola a occupare le istituzioni.
L’immagine del paradiso abitato dai diavoli non è meno consunta. Paradiso è Napoli (il panorama, il clima, il cibo…). E i diavoli sono i suoi abitanti. Pullulano tra i vicoli, sfilando dai panni stesi, in tre o quattro sullo stesso motorino, che rombante alza una zaffata di smog e inciviltà. I figli davanti, la moglie dietro, nessuno ha la controfigura di un casco.
No, troppo comodo. Il lazzaro ripulito che risale contromano i vicoli di via Tribunali è certamente un diavolo. Ma non di meno lo è il professionista alto borghese che nel week end si affaccia dagli spalti di Posillipo o di Capri e, sorbendo sul terrazzo rigoglioso un gelato all’ananasso, si duole con il vecchio compagno di classe (e di rituali) per l’irreparabile parabola di sfacelo che ha imboccata dalla città. Esattamente quella in cui torna a vivere dal lunedì al venerdì, trecento giorni all’anno. Questo idealtipo napoletano non hanno mai varcato il confine di Piazza San Ferdinando. Nemmeno da lontano vuole sentire l’afrore dei Quartieri Spagnoli. E’ a lui che è dedicata la seconda parte del Manifesto delle tre E. Su impulso di Domenico De Masi, infatti, il documento proposto a Ischia per Napoli 2020 si conclude con un inedita, stimolante variazione sul tema. Sicurezza? Infrastrutture? Senso civico? Macché. Il risveglio collettivo di cui Napoli ha bisogno, viene sì dalle tre E (Economia, Etica ed Estetica) ma i “pilastri per la ripresa” non troveranno fondamenta senza un intervento chirurgico sulla pasta umana partenopea, che si distingue per una lunga teoria di difetti. Lo si legge sul Manifesto medesimo, alle ultime righe. E mai come stavolta la verità sta nel fondo:
“…i mali endemici di Napoli e del Mezzogiorno (sono) riassumibili in quindici difetti da cui guardarsi: pressappochismo, infantilismo, incompetenza, arroganza, familismo, clientelismo, rozzezza estetica, trasformismo, provincialismo, disfattismo, sospetto, dietrologia, irriconoscenza, individualismo, rassegnazione”.
L’esame di coscienza, quindi, chiama in causa i cittadini di Napoli uno a uno. Le inguaribili, mefistofeliche inclinazioni che impediscono al vagone di coda di diventare locomotore, riguardano tutti. L’uomo del basso come l’uomo del terrazzo. Quello che non ha mai visto il mare dalla finestra e quello che dalla finestra vede il mare e il Vesuvio e Capri insieme. Riguarda il lazzaro e riguarda i borghese, che ormai a Napoli non si distinguono nemmeno per l’ammontare del conto in banca e per il numero delle carte di credito che trovano posto nei rispettivi portafogli.
E’ questa la Napoli che andrebbe commissariata, se fosse possibile: la Napoli dei napoletani. Ma non potendo mettere un grillo parlante dietro ogni pinocchio, una alternativa più praticabile forse è nello scambio uno a uno, popolo contro popolo.
Fonte: Il Denaro