Politica interna
Ostia, Spada in carcere dopo la testata «Un’aggressione con metodi mafiosi». Sono andati a prenderlo a metà pomeriggio nella sua abitazione in via Guido Vincon, a Nuova Ostia. Quarantotto ore dopo l’aggressione al reporter della trasmissione Nemo Daniele Piervincenzi fuori da una delle sue palestre — avvenuta durante un’intervista sull’endorsement per CasaPound alle elezioni municipali — Roberto Spada è stato fermato dai carabinieri e portato a Regina Coeli per lesioni e violenza privata, aggravate dal metodo mafioso e dai futili motivi. Reati contestati in concorso, perché adesso i militari del gruppo di Ostia stringono il cerchio sul complice di Spada: l’uomo che martedì pomeriggio si è accanito soprattutto sul cameraman di Piervincenzi, Edoardo Anselmi. Non si escludono poi conseguenze penali per altre dieci persone: hanno assistito al pestaggio, appoggiato gli aggressori e insultato le vittime. Insulti urlati ieri sempre contro i giornalisti dai balconi di via Vincon. Ma «il fermo di Spada è la dimostrazione che in Italia non esistono zone franche», sottolinea il Viminale. Il ringraziamento del ministro Marco Minniti «alla Procura di Roma» serve a dimostrare «la sinergia tra corpi dello Stato che sin dal momento successivo all’aggressione del giornalista Daniele Piervincenzi hanno lavorato per dare un segnale chiaro in tempi brevissimi». Ma quando afferma che «in Italia non esistono zone franche», il titolare del Viminale pensa al ballottaggio per l’elezione del presidente del Municipio di Ostia che si svolgerà il 19 novembre. E in particolare a un «piano di controllo dei seggi fisico e investigativo» che il capo della polizia Franco Gabrielli ha già messo a punto. Lo dice proprio così e si comprende che ci si muoverà seguendo un doppio binario: presidi delle forze dell’ordine nei luoghi del voto e «verifiche per prevenire e soprattutto contrastare eventuali pressioni o addirittura minacce per far prevalere chi è indicato dal clan».
Renzi e il piano B: accordi tecnici nei collegi. Sulla carta, l’ipotesi della coalizione di centrosinistra resta valida. Matteo Renzi ne parlerà nella direzione del suo partito di lunedì prossimo. E non porrà «veti» neppure nei confronti di Mdp, benché da parte degli scissionisti non ci sia stata nessuna apertura nei colloqui che ha avuto con loro in questi giorni Lorenzo Guerini, incaricato di seguire la «pratica». Gli orlandiani, che l’altro ieri sera si sono riuniti con il ministro della Giustizia in una sala della Camera, comunque non dovrebbero presentare nessuna mozione sulle alleanze in direzione. Porteranno solo alcune proposte sul fronte economico e sociale, per evitare di contarsi e di apparire come quelli che spaccano, dal momento che, formalmente, sulla necessità di dare vita a una coalizione di centrosinistra sono tutti d’accordo dentro il Partito democratico. Quella della coalizione resta quindi l’ipotesi principale. Ma nel Pd si sta già preparando una sorta di «piano B». Ne discuteva ieri in Transatlantico con alcuni parlamentari uno che di leggi elettorali se ne intende: Arturo Parisi. L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio del primo governo Prodi, spiegava: «Se non si riesce a costruire una coalizione perché perché non ci si riesce a mettere d’accordo, si possono fare gli apparentamenti. Forze diverse, senza un programma comune, decidono però chi sia il candidato nei collegi contendibili o sicuri, e lo votano. Potrà essere un esponente del Pd, come di Mdp, o delle altre forze politiche coinvolte. Si tratterebbe solo di un accodo tecnico». Sul Corriere della Sera, Massimo Franco evidenzia intanto “la sfasatura tra quello che una parte crescente del Pd ritiene si dovrebbe fare, e le intenzioni del vertice. E si è radicata la convinzione che ormai non possa essere Matteo Renzi a mediare con il resto della sinistra. In teoria, potrebbe assumere un ruolo centrale il premier Paolo Gentiloni, al quale si attribuisce, forse con un eccesso di ottimismo, la possibilità di recuperare un rapporto con Pietro Grasso, Mdp, Giuliano Pisapia.
Politica estera
Beirut: «Hariri è ostaggio dei sauditi». Adesso il presidente chiede che le dimissioni venga ad annunciargliele di persona, in faccia e non attraverso uno schermo televisivo. Perché i libanesi cominciano a sospettare che il premier Saad Hariri sia tenuto ostaggio in Arabia Saudita, da dove sei giorni fa ha proclamato in diretta di voler lasciare l’incarico. Da allora sarebbe agli arresti domiciliari e i colleghi di partito esigono che venga rimandato a Beirut «per restaurare la dignità e il rispetto verso il nostro Paese, la sovranità del Libano è stata compromessa», come spiega una fonte all’agenzia Reuters. Perfino Michel Aoun, il capo dello Stato che di Hariri è un avversario politico, pretende «di poterlo incontrare, altrimenti per me resta in carica». Il regno sunnita ha imposto le dimissioni del primo ministro come sfida all’Iran e ai suoi alleati libanesi. Alcuni diplomatici americani — sempre citati dalla Reuters — spiegano che il principe Mohammed bin Salman, l’erede al trono che guida i giochi di potere a corte, avrebbe «incoraggiato» Hariri a dichiarare le dimissioni. «Hariri forse non è prigioniero, ma di sicuro è sotto ricatto – ragiona Patricia Khoder, giornalista della testata francofona l’Orient-Le Jour -. Tutti i suoi affari ruotano attorno all’Arabia Saudita, come quelli del padre, possono rovinarlo in un attimo se non fa quello che gli ordinano». II riferimento è all’enorme credito, 9 miliardi di dollari, che vanta la società di costruzioni del premier, la Oger, nei confronti del governo saudita. Se i soldi non tornano indietro, Hariri «è fallito». II «sequestro» ha però fatto aumentare le simpatie nei confronti del primo ministro anche negli ambienti cristiani. La speranza è nella Francia, storica alleata, con il presidente Emmanuel Macron diretto a Riad per «liberare Hariri». Alla sede del giornale Annahar, il Giorno, tutti appoggiano la decisione del presidente Michel Aoun di non accettare le dimissioni «finché Hariri non sarà tornato a Beirut». La mossa di Riad ha riaperto vecchie ferite e riacceso l’orgoglio: «Prima dettava legge la Siria, poi l’Iran, ora anche l’Arabia usa gli stessi metodi. E il momento di riprenderci il nostro Paese».
Trump a Pechino: «Deficit colpa dei miei predecessori». «Xi jinping è un uomo davvero speciale e il popolo cinese fa bene ad essere molto orgoglioso di lui», dice Donald Trump. Xi lo osserva con un lieve sorriso, da imperatore compiaciuto. Subito dopo però il presidente americano solleva la questione del deficit commerciale enorme degli Stati Uniti con la Cina: 347 miliardi di dollari l’anno scorso. E chiede la fine di questa situazione «molto sleale». A Pechino, blandito dall’accoglienza imperiale nella Città Proibita, Trump si guarda bene dal rispolverare le parole della campagna elettorale, quando accusava la Cina di aver «stuprato l’economia americana». Trump, lusingato dall’accoglienza regale che Xi gli riserva, usa un accorgimento diplomatico per dirottare la colpa dello squilibrio commerciale su qualcun altro. Guarda caso, il suo capro espiatorio per eccellenza: Barack Obama. «Io non ce l’ho con voi cinesi, fate i vostri interessi. La colpa è delle passate Amministrazioni Usa che non hanno difeso la nostra industria e i nostri lavoratori». La sua conclusione: così non possiamo andare avanti, lo squilibrio è insostenibile. Xi gli risponde con una litania di statistiche, corredata da luoghi comuni del liberismo occidentale. Cita l’immenso volume delle importazioni cinesi dal resto del mondo, oltre mille miliardi annui, a riprova che la crescita economica del gigante asiatico ha un effetto traino sulle altre nazioni. Vero: le ultime rilevazioni del Fondo monetario internazionale dicono che se la crescita mondiale è in accelerazione, la causa numero uno è la locomotiva cinese.
Economia e Finanza
Sul crack delle banche venete spaccatura Consob-Bankitalia. ll confronto all’americana tra il direttore generale della Consob, Angelo Apponi, e il capo della Vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, non c’è stato. Ma al termine della duplice, lunghissima testimonianza resa davanti alla Commissione d’inchiesta sulle crisi bancarie, lo scontro tra le due istituzioni è emerso con evidenza. Dopo quasi sei ore di domande e risposte separate sulle modalità e la cronologia degli interventi ispettivi che si sono inanellati tra il 2012 e il 2015 su Veneto Banca e Popolare di Vicenza, il presidente Pier Ferdinando Casini ha osservato che «possono considerarsi superate le contraddizioni emerse dalle precedenti due audizioni». Dal confronto non sono emersi contrasti fattuali, secondo Casini, ma «interpretazioni divergenti» su quello che si sarebbe potuto o dovuto fare.I due dirigenti di Consob e Bankitalia hanno insistito, in particolare, sulla valutazione della lettera del 25 novembre 2013 con cui Via Nazionale segnalava in due pagine tutte le criticità emerse dall’ispezione di Veneto banca Indicazioni «più che sufficienti per far scattare un allarme dell’altra autorità» secondo Barbagallo. Mentre Apponi ha parlato di informazioni «incomplete per valutare il prezzo dell’aumento di capitale lanciato in quell’anno». Valutazioni che ora verranno verificate nei verbali, come ha annunciato Matteo Orfini, capogruppo Pd, che ha parlato di «aspetti inquietanti e gravi di mancanza di comunicazione» per decidere se fare o meno un confronto. Da Ferrara il segretario del partito, Matteo Renzi, rilancia: «Chi ha sbagliato deve pagare: non è populismo, è giustizia. Stiamo con i risparmiatori». Ma Casini avverte: «Quando si sentono i testimoni non si fanno talk show. Bisogna controllare i verbali, verificare se emergono difformità sostanziali. Io non le ho viste. E chiaro che ci sono cose che non hanno funzionato. Se c’è stata una mancanza di comunicazione è un problema loro. Ma la campagna elettorale è fuori di qua». Nel mirino – è la preoccupazione di queste ore – non è solo una Bankitalia che ha appena visto confermato tra le polemiche il suo governatore Ignazio Visco e che d’ora in poi rischia di camminare azzoppata, ma anche chi ha guidato lo stesso istituto in anni passati, ovvero Mario Draghi.
Marcia indietro di Nouy – Regole sulle banche, il passo indietro di Nouy. L’intervento dell’Europarlamento ha convinto l’organo di supervisione Ssm della Banca centrale europea a riconsiderare la sua proposta di «stretta» sugli accantonamenti sui crediti deteriorati delle banche. I dubbi giuridici sollevati dal presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani di Forza Italia, ribaditi da vari eurodeputati italiani su base bipartisan, hanno portato la responsabile francese del Ssm Daniele Nouy, ad aprire a un ammorbidimento. Lo ha chiarito la stessa Nouy in una audizione in commissione Affari economici dell’Europarlamento di Bruxelles, dove eurodeputati italiani come il presidente Roberto Gualtieri del Pd, Marco Valli del M5S e Fulvio Martusciello di Forza Italia hanno messo sotto pressione la responsabile della vigilanza Bce con critiche sulla sua proposta per i prestiti non performanti (Npl), condivise in Italia da governo, Banca d’Italia, banchieri e industriali. «Possiamo migliorare la formulazione e senz’altro sarà migliorata», ha promesso Nouy, dopo essersi trovata più volte in imbarazzo nel rispondere alle domande e alle critiche di vari membri della commissione parlamentare. Per Antonio Tajani è una vittoria, parziale forse, ma significativa. Nelle ultime settimane ha investito della questione molteplici uffici, quelli giuridici (indipendenti) , quelli diplomatici e politici della carica che ricopre, e indubbiamente la possibilità che le nuove regole sugli Npl possano slittare è un punto a favore del Parlamento europeo che presiede e di cui ha rivendicato le competenze esclusive. Il presidente italiano del Parlamento di Strasburgo non nasconde la soddisfazione: «Di sicuro continueremo a vigilare, siamo convinti che deve essere il Parlamento a scrivere le leggi insieme al Consiglio e non possono essere tecnocrati capaci a fare altri tipi di lavori a decidere quali sono le regole che riguardano la vita dei cittadini. E in questo caso l’addendum della Bce riguarda la vita di milioni di cittadini europei».