Per quanto dovremo ancora sopportare l’idea e l’immagine di un Sud che impoverisce il Nord. Che lo ha portato al fallimento con le sue richieste di assistenza o di infrastrutture. Ma, soprattutto, quante volte dovremo spiegare ai nostri concittandini del Nord che senza il Mezzogiorno sarebbero ancora periferia dell’Europa e l’Italia sarebbe molto più piccola e modesta.
Prendiamo la Germania. Come spiega Gianfranco Viesti:
“Caduto il Muro di Berlino, si è realizzato ciò che era ritenuto impossibile, fuori dalla storia, solo fino a poche settimane prima: la riunificazione. Pur di ottenerla, classi dirigenti di ben altro spessore rispetto a quelle di oggi, hanno accettato una profonda ridefinizione degli assetti europei, hanno visto sparire la propria moneta. Hanno riunito un paese dolorosamente diviso dalla Guerra fredda, e hanno accettato di pagarne i costi, esterni e interni. Hanno incluso territori assai più poveri; in parte con antiche tradizioni scientifiche e industriali, ma con assetti produttivi distorti dalla pianificazione comunista. Hanno sostenuto da subito il potere d’acquisto di quei cittadini con un cambio irrealistico, di 1:1 fra il vecchio marco ovest e il vecchio marco est. Hanno prodotto una sforzo poderoso di inclusione sociale (con l’estensione immediata di un welfare ricco per anziani e disoccupati) e di modernizzazione del territorio; hanno investito ingenti fondi, pubblici e privati. Curiosamente, molti in Italia sono convinti che sia stata raggiunta una piena convergenza di reddito fra le due Germanie: è uno degli argomenti usati in comparazione alla situazione italiana, per mostrare l’irredimibile diversità del Sud.
Non è così; anche in Germania i divari regionali restano ampi. Con l’unificazione i tedeschi sono diventati statisticamente più poveri; così come lo sono diventati gli europei del primo nucleo comunitario con i successivi allargamenti. Ma nessuno ha
sollevato questo argomento contabile. Perché, stando insieme, i tedeschi come gli europei sono diventati, come documentano con precisione i numeri dell’economia e i dati della politica internazionale, più forti”.
D’accordo, direte: Napoli non è Berlino. E l’Italia non è la Germania. Ma ci sono due considerazioni da fare. La prima: nella fase della riunificazione il contributo del Sud all’industrializzazione del Nord è stato forte e fondamentale. Un dato che nessuno storico, oggi, da Francesco Savero Nitti in poi, mette in discussione. La seconda: pensare che in un mondo globalizzato il piccole e ricco Nord-Est possa davvero competere con i giganti dei paesi concorrenti è non solo sbagliato ma anche fuorviante. “Quale che ne sia stata la ripartizione interna, il benessere degli italiani è così fortemente cresciuto nei 150 anni anche perché siamo stati cittadini di un paese di rilevante dimensione; pur con tutte le sue difficoltà e contraddizioni, di una delle principali economie del mondo; di un grande caso di successo internazionale, almeno fino al «declino» dell’ultimo ventennio”.
E, allora, sarebbe ora di recuperare il senso della nostra storia. Al Nord, rivedendo certi giudizi fuori dal mondo. E al Sud recuperando l’orgoglio schiacciato da una narrazione storica che riflette solo il pensiero dei “vincitori” sabaudi.