di AMEDEO FENIELLO –
Francesco Petrarca è a Napoli quando, il giorno di Santa Caterina, il 25 novembre 1343, sulla città si scatena uno tsunami. E il poeta lo racconta, in presa diretta. Ne scrive subito, ancora sotto shock, il giorno dopo, a Giovanni Colonna. I fatti andarono così. Nei giorni prima si erano alternati presagi e segni negativi. Temporali si succedevano a temporali. Dei nubifragi. Le voci di profezie si diffondono. E, coinvolgono, per prime, delle donne, che cominciano a percorrere le strade della città, stringendo i figli al petto, “supplici e lacrimanti”. Da poche, le donne si trasformano in una folla, che comincia a far ressa davanti alle porte delle chiese, per entrare.
Petrarca resta impressionato dalla scena. E’ il tramonto. Torna nel convento dei frati minori di San Lorenzo, dove è ospite. E’ inquieto. Nonostante il cielo ora appaia sereno, resta a guardare dalla finestra, per cogliere qualche segno. Ma è tardi. Va a letto.
Si è appena addormentato, quando sente voci. Rumori. Grida tutt’intorno. Sente tremare le finestre e le mura della stanza. Il lume da notte, che per abitudine tiene sempre acceso accanto a lui, d’improvviso si spegne. Buio. Scende dal letto. In fretta. Al posto del sonno, la paura della morte. Nell’oscurità, ci si chiama. Si cerca di capire. L’unica luce è quella dei lampi, che non aiutano. Accecano. Seguiti dal loro rombo, cupissimo. I frati pregano. Cercano di farsi forza, l’un l’altro. Arriva il priore, con altri frati. Hanno delle fiaccole. Finalmente un po’ di luce. Ora, va un po’ meglio. Le preghiere si fanno più forti. Si afferrano reliquie di santi. Croci. Scappano tutti verso la chiesa. Ci si genuflette. Si chiede perdono. Si spera che tutto si arresti. Che la notte si calmi. Il rombo invece aumenta. Arriva dal mare il boato di una notte d’inferno.
Arriva il mattino. Il vero giorno. Lo scenario è da incubo. Dalla strada crescono le urla. Vengono dal porto. Cos’è successo? Petrarca balza a cavallo. Va verso il molo. Vedere è morire: La violenza del maremoto è stata capace di trascinare con sé qualunque cosa. Uomini, animali, edifici. Le stesse strutture del porto appaiono gravemente danneggiate, trascinate via con inaudita violenza. Del quartiere prospiciente il mare, solo rovine, risucchiate dalle onde. Tutt’intorno alla spiaggia un paesaggio di desolazione e di paura.
La popolazione corre in massa al porto. E’ sgomenta. Ci sono tutti. Dice Petrarca più di mille cavalieri, convenuti come per le esequie della patria. Ma ecco che il terreno tutt’intorno, eroso dall’acqua del mare, comincia a franare. Molti cadono. Grida, urla, il fuggi fuggi generale, verso l’alto. Intanto, le onde non si arrestano. Migliaia. Con creste enormi. Che si formano, tra Capri e Napoli. E il mare assume un colore innaturale. Non ceruleo, o scuro e tenebroso, come nel cuore di una tempesta. Ma bianco, dell’orrido candore della spuma.
Mentre tutto questo succede, l’attenzione si sposta verso un altro settore. Arriva la giovane regina, la sedicenne Giovanna. Accompagnata dal suo seguito. Giovane. Scalza. Scarmigliata. La rappresentazione stessa della desolazione.
L’ultima immagine di questa tragedia riguarda le navi. Tutte quelle che erano in rada sono state spazzate via. Tranne una. Che, nonostante quasi a pezzi, non affonda. Resiste. Misera zattera, su cui resistono circa quattrocento galeotti. I loro sforzi non bastano. La nave sta per affondare. I sopravvissuti si raccolgono sulla tolda. Da terra, si segue con orrore lo spettacolo. Quando, all’improvviso, il cielo si apre. La tempesta si placa. I galeotti ce l’hanno fatta. Non sommersi, ma salvati. Che destino, osserva Petrarca. Ce la fanno i peggiori. L’infinità delle vie del Signore. «Perché sia dato comprendere che nei pericoli della morte più sicuri sono coloro che più a vile hanno la vita».