Di LAURA BERCIOUX
Maddalena Tulanti, vice direttore del Corriere del Mezzogiorno della Puglia, dirige il quotidiano dal 2000, anno della fondazione. E’ stata cronista all’Unità» dove ha iniziato come cronista a Napoli, la città della sua crescita, direttore Alfredo Reichlin, quando chiude la redazione napoletana si trasferisce a Roma dove diventa redattore capo centrale. La Francia per ragioni sentimentali, la Russia per affinità elettive sono le sue seconde patrie. Dal 1994 al 1998 ha vissuto a Mosca. È stata la prima giornalista italiana ad arrivare in Cecenia, l’unica a essere presente quando a Groznij arrivavano i carri armati russi. Ancora l’unica italiana ad avere intervistato il Presidente Dudaev nel bunker sotto le bombe. Gradisca, Presidente è il suo primo libro: un’intervista a Patrizia D’Addario che parla dei suoi rapporti con Berlusconi.
Quale è il suo rapporto con Napoli e il Sud?
“Il mio rapporto con Napoli e il Sud è di tipo sentimentale. O forse carnale. Sì, meglio carnale. Nel senso che sento nel corpo e nel sangue che sono nata in questa parte d’Italia. Le mie reazioni, il mio modo di comportarmi, il mio modo di leggere il mondo credo siano “meridionali“ in generale e “napoletani” nel particolare. Almeno nello stereotipo: sono espansiva, passionale, un po’ casinista, emigrante. Dopo aver girato un bel po’ per il mio lavoro (soprattutto Russia e Francia) vivo da quasi 15 anni a Bari e non c’è nessuno che mi abbia incontrato che mi abbia mai scambiato per una milanese, ne devo dedurre che nonostante la lontananza (sono andata via da 30 anni esatti) resto “di Napoli”. Non ho perso nemmeno la freschezza linguistica, cosa di cui vado molto fiera. Pur se devo dire uso la mia “napoletanità” con parsimonia e forse sarebbe più giusto dire che è la “napoletanità” che usa me, fuoriesce, straripa, deborda. Per quanto riguarda i rapporti fisici con Napoli, non sono regolari. Ce ne sono con il mio giornale, il Corriere del Mezzogiorno, e con amici di giovinezza che ancora resistono dopo tanta lontananza fisica. Ma dovrei perseverare con le visite, mi sento colpevole”.
Cosa ricorda di bello e positivo?
“I miei ricordi napoletani sono tutti positivi. Abitavo in via Chiaia dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza ai Quartieri Spagnoli (Calata San Mattia). Una privilegiata dunque. Per esempio non ho mai preso un autobus in vita mia, se non per andare a mare al Sea Garden (il 140); la monnezza non era un incubo ai miei tempi, sebbene non abbiamo mai avuto la fama di città pulita e ho lavorato troppo poco a Napoli (solo 5 anni) per avere brutti ricordi. I tempi non erano facili nemmeno allora, ma la ventata di novità che portavano le lotte studentesche e operaie ci permetteva di sperare in un futuro più bello e più felice. Anche le esperienze più catastrofiche, il terremoto e il terrorismo, non mi sembravano tali da abbattere quelle stesse speranze. Ma dipenderà dal fatto che io vedo sempre il bicchiere mezzo pieno e che la giovinezza guarda tutto con occhi più luminosi”.
Qual è la percezione della reputazione di Napoli nel suo ambiente di lavoro?
“Purtroppo Napoli non gode in questo momento di grande reputazione, da nessuna parte credo, nei giornali come nel resto della società civile. E’ accaduto altre volte nella sua storia di avere cattivo look e capita a tutte le città. Ha toccato il punto più basso nella considerazione nazionale (e internazionale) con l’ ”affaire monnezza” quando i giornali del mondo intero pubblicavano le foto delle montagne di sacchetti bruciati che soffocavano le strade delle vie eleganti e meno eleganti. Ma non si è ancora ripresa da quello choc. Sebbene dal punto di vista culturale e artistico sia in grande forma (scrittori, musicisti, attori, registi…) vista da lontano la città sembra mortificata, umiliata, senza forza. Sarà colpa della politica così asfittica? E’ possibile. Nonostante tutti abbiano una pessima considerazione della politica e dei politici, i momenti peggiori di una comunità sono proprio quelli in cui né l’una né gli altri contano o pesano. Le grandi passioni, anche quelle negative, fanno sempre bene, ai singoli e alla collettività; l’apatia, il risentimento, il rancore o, peggio ancora l’indifferenza, sono malattie mortali”.
Attualmente qual è l’opera più simbolica?
“Credo i libri di Elena Ferrante. Sono a mio parere la descrizione materiale di quanto sia fallito il programma di un’intera generazione di amministratori, quelli di sinistra per intenderci. Trent’anni sono passati invano, la periferia, il “rione” è rimasto tale e quale alla mia adolescenza. Avevo degli zii che abitavano nell’area di Poggioreale e avevo orrore ogni volta che andavamo a trovarli per il nulla in cui i miei cuginetti abitavano. Mi pare non sia cambiato granché. Puoi anche mettere in via Brin le eccellenze delle eccellenze, ma se tutto intorno resta un paesaggio respingente per brutture e degrado il miracolo atteso dall’illuminista che l’ha immaginato non accadrà. E se il vicolo che accoglie il Madre è sempre sporco e orrendo anche quello straordinario Museo ne sarà sfigurato. Insomma la tessitura fra centro e periferia non è riuscita, sono sempre slabbrati, ognuno per conto suo, ed è questo, io penso, sia il più grande fallimento di quella pure così straordinaria stagione politica”.
Qual è l’autore più rappresentativo di Napoli e del Sud?
“Mi ripeto: Elena Ferrante per Napoli. E aggiungerei Maurizio de Giovanni, straordinario scrittore oltre che di una simpatia travolgente. Per la mia città di adozione, Bari, citerei Nicola Lagioia, Mario Desiati, Gianrico Carofiglio, Vito Bruno, Alessandro Leogrande”.
Domenico Rea parlò di due Napoli che vivono fianco a fianco ma separate (la borghesia e i lazzari) e senza diventare popolo: le sembra una chiave di lettura ancora attuale?
“Potrebbe ancora andare bene, ma sono cauta, vivendo lontano da Napoli da così tanti anni non voglio azzardare giudizi né tantomeno analisi sociologiche. Napoli è una città che si vive, non si descrive. Non so chi sono i lazzari oggi, magari i nuovi borghesi; e non so chi sono i borghesi, magari sono diventati lazzari. Insomma non si può continuamente vivisezionare la città come un medico legale. E soprattutto non lo si può fare a chilometri di distanza. Credo che Napoli meriti un processo vero e non un giudizio sommario, se proprio vogliamo portarla in tribunale”.
Raffaele La Capria parla di ferita insanabile aperta nel 1799. Quando i lazzari presero i borghesi illuminati nelle loro case e li trucidarono sulla piazza completando l’opera del Cardinale Ruffo… Questa ferita ancora sanguina a suo avviso o è una enfatizzazione letteraria?
“Basta col 1799, basta con l’unità mutilata, basta col passato! Per lo stesso motivo per cui non mi piace parlare di Napoli come un cadavere da fare a pezzi su un tavolaccio dell’obitorio, credo sia giusto concedere alla città il tempo che vive. Mai più alibi, mai più recriminazioni. Lasciamo che i napoletani vivano il proprio tempo, il 2015 in questo caso, e si impegnino a farlo nel modo migliore. E ciascuno per la propria parte, piccolissima o grandissima che sia, con le responsabilità del caso, piccolissime o grandissime. Giudichiamoli per questo”.
Cosa farebbe se fosse il sindaco di Napoli?
“Se fossi il sindaco di Napoli direi ai miei concittadini: siamo stati grandi, non lo siamo più. Ma possiamo vivere bene anche senza esserlo e poi perdonerei tutti quelli che ne parlano male, anzi li inviterei a cena (a spese mie) e chiederei loro: mi dai un consiglio?”.