L’Italia è sistematicamente in posizioni arretrate nelle classifiche internazionali sul contesto amministrativo in cui operano le imprese. Ciò riduce gli investimenti, non solo dall’estero, e la capacità del Paese di crescere. Una PA più efficiente ha rilevanti effetti positivi sulla crescita dell’Italia. Una riduzione dell’1% dell’inefficienza della PA (misurata dalla difficoltà a raggiungerne gli uffici) è associata a un incremento dello 0,9% del livello del PIL pro-capite e a un aumento dello 0,2% della quota dei dipendenti in imprese a partecipazione estera sul totale dell’occupazione privata non-agricola. È questa un’analisi del Centro studi di Confindustria sulla PA. Occorre dunque – dice viale Dell’Astronomia – sciogliere i nodi della burocrazia: troppe e complesse regole, tempi di risposta lunghi e incerti, costi insostenibili della macchina pubblica, anche della politica, imbrigliano lo sviluppo, soprattutto delle aziende più dinamiche. Si può risparmiare fino a 1 miliardo tagliando i costi della Camera; in Italia la spesa per ciascun deputato è 9,8 volte il PIL pro-capite, contro 6,6 nel Regno Unito.
La Banca Mondiale sottolinea che l’alta pressione fiscale sulle imprese e il peso delle procedure burocratiche sono le urgenze maggiori che il nostro Paese deve risolvere. In un anno un’impresa impiega 269 ore di lavoro amministrativo per effettuare 15 pagamenti, che pesano per il 65,8% sul suo profitto. E su questo tema l’Italia vede nuovamente peggiorare il suo ranking, scendendo quest’anno al 138° posto dal 135°. Si aggrava sensibilmente anche la graduatoria relativa alle autorizzazioni e ai permessi necessari a realizzare opere edili (al 112° posto dal 101°), con 233,5 giorni necessari per 11 procedure a un costo del 186,4% del reddito pro-capite. Mentre migliora nettamente, seppur rimanendo nella parte bassa della classifica, la posizione per quanto riguarda le procedure di esigibilità degli obblighi contrattuali (al 103° posto dal 140° dello scorso anno), grazie a una maggiore regolazione delle spese legali e allo snellimento di alcuni procedimenti giudiziari. In attesa, si può aggiungere, che la riforma dei distretti giudiziari e la specializzazione dei tribunali per le imprese diventino pienamente efficaci.
TAGLIO AI COSTI DELLA BUROCRAZIA – L’attrattività degli investitori esteri ma anche lo slancio degli imprenditori italiani a intraprendere nuove iniziative sono fortemente condizionati dal numero e dalla complessità delle pratiche amministrative, dai tempi e dai costi necessari al loro svolgimento. L’inefficienza della pubblica amministrazione (PA) influenza ogni ambito della vita sociale ed economica del Paese, ostacolandone la crescita e creando un enorme svantaggio competitivo. L’urgente necessità di misure di semplificazione che puntino alla sburocratizzazione della PA è rivelata non solo dal confronto internazionale. Secondo il rapporto PROMO PA 2013 le micro e piccole imprese impiegano 30,2 giornate/uomo l’anno per gli adempimenti burocratici, confermando l’aumento registrato nel 2012, rispetto alle 28 del 2011. Il dato peggiora soprattutto nell’industria e nei servizi (circa 33 giornate/uomo), mentre rimane stabile nel commercio (26). Se includiamo anche i costi esterni, quindi consulenze e parcelle di professionisti, si arriva a un costo per la burocrazia pari quasi a 12mila euro l’anno per azienda, con un’incidenza sul fatturato aziendale pari al 7,5%. Moltiplicando tale costo per il totale delle micro e piccole imprese presenti in Italia, l’onere complessivo da burocrazia della PA è quantificabile in 10,8 miliardi di euro (circa lo 0,8% del PIL). Una PA più efficiente genera impatti rilevanti sullo sviluppo economico del Paese: secondo il CSC una diminuzione dell’1% dell’inefficienza della PA (misurata dalla difficoltà a raggiungerne gli uffici) è associata a un incremento dello 0,9% del livello del PIL pro-capite e a un aumento dello 0,2% della quota dei dipendenti in imprese a partecipazione estera sul totale dell’occupazione privata non-agricola (tale quota era nel 2008 pari al 5,1%).
Semplificare, oggi, significa anzitutto riprogrammare le politiche pubbliche, per rimuovere i limiti irragionevoli all’attività di impresa e rilanciare la crescita. Per troppi anni, si è cercato di supplire alla carenza di linee strategiche con le riforme del procedimento amministrativo. Ma, prima di qualsiasi semplificazione procedimentale, è necessaria una prospettiva politica sostanziale, che regoli gli interessi in gioco e stabilisca le priorità. In particolare, le istituzioni dovrebbero essere in grado di esprimere un preciso indirizzo politico, individuando obiettivi strategici, funzionali alle concrete esigenze del Paese in una determinata fase storica. In questo modo, si favorirebbe la collaborazione tra le amministrazioni e, quindi, la composizione degli interessi in gioco, senza il rischio di veti e intralci. SPENDING REVIEW – È poi fondamentale intervenire sulla macchina amministrativa. In questa direzione si muove il progetto di spendig review presentato dal Commissario Carlo Cottarelli. Occorre ridurre sensibilmente il numero delle amministrazioni in base al principio dell’unicità delle funzioni: abolire le Province, istituire le città metropolitane (senza farle proliferare come sta accadendo ora: dalle 10 originarie si è già arrivati a 18), riorganizzare l’amministrazione periferica dello Stato, aumentare la soglia dimensionale dei piccoli Comuni (elevandola almeno a 5.000 abitanti). È quanto è stato indicato nel Progetto Confindustria per l’Italia. È necessario, tra l’altro, intervenire sull’assetto istituzionale e, in particolare, sul Titolo V della Costituzione, che ha creato un “federalismo della complicazione”, indebolendo la capacità delle politiche centrali di incidere sulle principali questioni di rilevanza strategica nazionale (tra cui infrastrutture, comunicazioni, energia), a causa delle maggiori competenze attribuite a livello regionale.
SEMPLIFICAZIONI – Accanto alla riorganizzazione della macchina pubblica, è vitale l’implementazione delle politiche di semplificazione dei procedimenti amministrativi. Il DDL “Semplificazioni” approvato lo scorso giugno dal Consiglio dei Ministri e ancora all’esame del Parlamento si concentra su misure che incidono direttamente sul rapporto tra PA e imprese, in piena continuità con il Decreto “del Fare”. Si interviene, infatti, sugli ambiti più “sensibili” per chi fa impresa, tra cui il riassetto normativo e la riduzione degli oneri amministrativi, la salute e la sicurezza sul lavoro, il tutor d’impresa, l’edilizia, il fisco, e si adottano soluzioni basate sull’esperienza e sulle concrete difficoltà incontrate nel rapporto tra PA e imprese; in tal senso il confronto con le associazioni imprenditoriali è stato cruciale. Si tratta di misure, in gran parte a costo zero, che non richiedono atti esecutivi e incidono in modo immediato sul “fare impresa”. Confindustria condivide l’approccio seguito e ne auspica il rafforzamento soprattutto in materia di fisco, sicurezza sul lavoro e ambiente. Tuttavia, la semplificazione è un processo complesso, faticoso, che non può nè deve finire mai e che facilmente può tradursi in un continuo stop and go, con un decreto che blocca e fa un passo indietro rispetto a una misura precedentemente stabilita da un altro decreto. È il caso, ad esempio, dell’autorizzazione paesaggistica, la cui efficacia è stata limitata dal Decreto “Valore Cultura” dopo essere stata estesa dal Decreto “del Fare” appena un mese prima.
Confindustria ritiene che una moderna politica di semplificazione, soprattutto nell’attuale fase di spending review, debba agire sui procedimenti e sulle strutture amministrative, in modo da: 1) ridurre il numero delle procedure e delle amministrazioni che se ne occupano; 2) riordinare le competenze degli uffici, accorpando le funzioni per settori omogenei e sopprimendo gli organi superflui; 3) standardizzare i procedimenti dello stesso tipo che si svolgono presso amministrazioni diverse. È necessario, inoltre, porre attenzione alla qualità della regolamentazione. In primo luogo, essa dovrebbe essere preceduta da un’analisi attenta sulla sua effettiva necessità e occorre, poi, che le norme siano scritte e diffuse in modo da garantire la certezza del diritto. Solo a queste condizioni è possibile creare rapporti di “leale collaborazione” tra questi e le amministrazioni. Ciò si traduce in una effettiva diminuzione dei costi e dei tempi necessari per gli adempimenti burocratici e, in aggiunta, nell’effettiva percezione da parte dei destinatari delle semplificazioni via via introdotte.
TAGLIARE I COSTI DELLA CASTA – Una seria riforma della burocrazia non può che partire dalla testa che impartisce le direttive alla stessa pubblica amministrazione, ossia deve cominciare con l’abbattimento dei costi della politica. I parlamentari italiani sono, in base alla dimensione dell’indennità in rapporto al PIL pro-capite, di gran lunga i più pagati d’Europa; ciò fa pensare che molto più facilmente si è portati a far politica per la carriera e l’arricchimento personale, più che per il bene comune. Nel 2012 lo stipendio da deputato in Italia era pari a 4,7 volte il PIL pro-capite, contro l’1,8 del Regno Unito. Contando anche i rimborsi spese (con e senza documentazione), i contributi ai gruppi parlamentari, i rimborsi elettorali e le spese di trasporto tale rapporto sale al 9,8 per il deputato italiano e al 6,6 per quello inglese. I costi della politica, intesa come organi legislativi ed elettivi, hanno toccato complessivamente i 2,5 miliardi di euro nel 2012, secondo le stime prodotte recentemente da Roberto Perotti. Come per la pubblica amministrazione in genere, i rimedi stanno nel taglio netto dei costi e nella riorganizzazione delle procedure.
Si può risparmiare fino a 1 miliardo riducendo del 30% l’indennità dei parlamentari, ridimensionandone il numero, riformando le loro pensioni e abolendo i contributi ai gruppi parlamentari, i rimborsi elettorali e le spese di trasporto ma mantenendo la diaria (rimborso spese per l’esercizio del mandato parlamentare), oppure eliminandola e introducendo un tetto massimo alle spese rimborsabili. I costi della politica, ovviamente non si esauriscono con la remunerazione dei rappresentanti parlamentari e con il costo di funzionamento delle due Camere, ma ricomprendono anche tutte le altre istituzioni elettive (Comuni, Regioni, dando per abolite le Province) nonché quelle attività improprie svolte da una moltitudine di società partecipate dalla pubblica amministrazione (sono più di 7.700 e costano, in termini di ripiano delle perdite, circa 22 miliardi). E i cerchi del vivere di politica (anziché per la politica) si ampliano ulteriormente se si includono consulenze e assunzioni clientelari che pesano sui bilanci delle società pubbliche. “Maggiori sforzi per affrontare le rigidità strutturali e politiche del Paese appaiono fondamentali per rafforzare la competitività. Le inefficienze e il peso della burocrazia in Italia drenano risorse, pubbliche e private, e costituiscono una vera e propria tassa occulta, che sottrae ricchezze a famiglie e imprese. Inoltre, e questo è forse il costo maggiore, con i suoi ritardi impedisce di cogliere opportunità e realizzare investimenti, abbassando quindi PIL e occupazione. Di ciò – conclude il centro studi di Confindustria – deve rispondere chi governa l’Italia. Le riforme di semplificazione proposte nell’ultimo anno sono un passo importante per affrontare alcune di queste sfide. Ma molto va ancora fatto, alleggerendo il carico su imprese e lavoratori e tagliando i costi eccessivi della politica”.