Tornare a discutere del Mezzogiorno è quanto mai utile, tanto più da quando è divenuta assodata la certezza che senza il contributo di crescita di un Sud che riparte, l’Italia non sarà mai pienamente competitiva su scala europea e globale. Ma questo che sembra un assunto scontato, se non addirittura banale, è stato sottaciuto e spinto ai margini della riflessione della classe dirigente del nostro Paese per circa venti anni. Due decenni in cui il Mezzogiorno è uscito, in sostanza, dall’agenda politica italiana.
Molti osservatori riconoscono al governo Renzi di aver riportato al centro delle policy il Mezzogiorno, con il lancio del Masterplan e dei Patti per il Sud. Un segnale ancora più forte è venuto dal governo Gentiloni, con la decisione di dedicare al Sud e alle politiche di coesione un ministero, affidandolo a Claudio De Vincenti.
Altri aggiungono che una svolta nella coscienza diffusa e nella opinione corrente e che essa si deve anche all’impegno di scrittori e studiosi che hanno insistito tenacemente a porre il tema del riconoscimento degli errori compiuti con il processo di unificazione a guida sabauda. Uno fra tutti, Pino Aprile che ha dedicato gli ultimi anni a scrivere, pubblicare e soprattutto andare in giro, in lungo e in largo per il Sud, a suscitare un profondo movimento di consapevolezza destinato a cambiare la percezione del Mezzogiorno come luogo dell’arretratezza e dell’abbandono, della sfiducia e della disperazione.
Un’opera di rilettura di carte, dati e riflessioni che preconizza la più ampia revisione del racconto risorgimentale. Partendo dalla certezza che, all’epoca della spedizione dei Mille e subito dopo, il Mezzogiorno era una parte del Paese fiorente, o non meno ricco e avanzato del resto del Paese.
Una certezza che evidentemente condivide uno storico come Giuseppe Di Taranto, ordinario di Storia dell’economia e dell’Impresa alla Luiss di Roma. Al quale di deve un intervento molto incisivo, ospitato nell’ultimo quaderno Svimez (n. 50/2017), che conviene chiosare ampiamente per la nitidezza delle posizioni da lui assunte.
Si parte da una considerazione di contesto. “Il Mezzogiorno – afferma Di Taranto – continua ad ispirare studi che non sempre hanno la rilevanza che meriterebbero; anzi, in Italia sono spesso ignorati, nonostante forniscano risultati molto interessanti che potrebbero offrire spunti di indagine per le giovani generazione di ricercatori”.
A che cosa si riferisce? Il professore parla, ad esempio, di Stèphanie Collet, storica della finanza della Universitè Libre de
Bruxelles. Quale il suo merito? Aver calcolato lo spread – tema di particolare attualità – esistente fra i
rendimenti dei bond dei sette Stati della penisola italiana prima e dopo l’Unità. Con risultati che Di Taranto definisce… “ sorprendenti”.
Riassumiamoli.
- Il Regno delle Due Sicilie era la Germania dell’epoca, cioè lo Stato economicamente più solido della penisola, perché dotato di una apprezzabile struttura industriale, di importanti porti commerciali e di una agricoltura che, seppur limitata nelle potenzialità dal latifondo, mostrava buone performance.
- I titoli del Regno delle Due Sicilie, che fino al 1876 mantennerol’indicazione della loro origine, prima del 1861 beneficiavano del costo deldebito più basso in assoluto, mentre dopo l’Unità i loro rendimenti salironoconsiderevolmente, passando dal 4,3% al 6,9% dei titoli “convertiti” del Regnod’Italia, con un incremento di 260 punti base.
Quali conseguenze si possono trarre da questa analisi?
A parere di Di Taranto questa ricerca può fungere da base per qualche riflessione sul Meridione e, quindi, sulla Cassa per il Mezzogiorno, che fu lo strumento più efficiente per trovare una risposta a criticità che, diciamo noi, si sono originate a seguito del devastante impatto dell’effetto Unificazione e dello spread tra Sud e Nord che essa ha finito col generare. Argomento che merita certamente un approfondimento, che è reso possibile per i tanti scritti che, tra gli altri, ha prodotto Amedeo Lepore, anch’egli storico dell’economia ed attuale assessore alle Attività produttive della Regione Campania. Per ora limitiamoci a riportare il giudizio di Di Taranto, secondo il quale la fine dell’Intervento Straordinario dello Stato a favore delle Regioni meridionali, sancita dalla legge n. 488 del 1992, si è resa necessaria a seguito del Trattato di Maastricht. “Quest’ultimo – dice Di Taranto – imponeva vincoli normativi rigidi a tutela della concorrenza e vietava, perciò, di concedere aiuti a singoli territori o settori all’interno della Comunità europea. In questo nuovo contesto, il Mezzogiorno, pur se riconosciuto a livello internazionale arretrato, non soltanto non poté più usufruire dell’Intervento Straordinario dello Stato ad integrazione del suo sviluppo”.
L’intervento di Di Taranto non perde l’occasione per ricordare cosa avvenne nei primi anni Novanta ai danni del Mezzogiorno quando, proprio con la legge n. 488,“accanto alle aree depresse, nelle quali il prodotto interno lordo medio per abitante era inferiore al 75% della media della Comunità europea, vennero introdotte anche quelle in declino, zone interne al Centro-Nord che dovevano comprendere il 19% della popolazione locale”.
E come non bastasse “successivamente il Governo ottenne di calcolare i parametri delle aree in declino non in rapporto alla media nazionale, bensì alla media del Centro-Nord, criterio che consentì di includerne numerose che erano svantaggiate in confronto a quelle contigue, ma non rispetto all’insieme del Paese”. Con la conseguenza paradossale di estendere gli interventi a zone che coprono circa il 30% della popolazione del Centro-Nord. E fra queste, alcunedell’Emilia Romagna o del Veneto, che in effetti sono aree tra le più ricche d’Europa. Il tutto ai danni delle Regioni meridionali che subirono una riduzione netta dell’aiuto.
Il resto lo fece l’Europa, ossia l’ingresso nella moneta unica europea. Lo dicono i numeri, che non sanno mentire.
Di Taranto ricorda:
- Nel periodo 2001-2014, a fronte di un tasso di crescita cumulato del 15,7% in Germania, del 21,4% in Spagna, del 16,3% in Francia, il dato italiano è negativo, attestandosi a -1,1%.
- Di gran lunga inferiore quello del Sud d’Italia: -9,4%. In termini di PIL in potere di acquisto, il Mezzogiorno è cresciuto del 13%, oltre il 40% in meno rispetto alla media delle Regioni di convergenza dell’Europa a 28, che hanno registrato un incremento del 53,6%7
Conclusione: supponendo che il Meridione nei prossimi anni riesca a svilupparsi con lo stesso ritmo dell’intera Nazione, ipotesi evidentemente poco realistica, esso raggiungerebbe il livello di ricchezza del 2007 non prima del 2025.