Politica interna

Sfida nel Pd. A poche ore dalla direzione Pd è sempre più invalicabile il muro che divide i renziani dal fronte riunito attorno a Maurizio Martina. I pontieri stanno facendo gli straordinari per aprire almeno una breccia, che tuttavia nella notte ancora non si intravvedeva. Per cui, salvo miracoli, oggi pomeriggio arriverà la richiesta di un voto di fiducia al reggente, che potrebbe far esplodere il partito. È uno scontro durissimo quello che si prepara al Nazareno, dove i contendenti si ritroveranno a duellare non più sull’accordo ormai naufragato con i grillini, bensì sul mandato del reggente, sui tempi e sui modi per definire nuovi assetti al vertice, specie in caso di voto anticipato.«Sono per l’unità del partito. Se ci sarà uno strappo non sarò certo io a farlo. Non ha proprio senso rischiare una discussione tutta interna per portare la tensione sul Pd quando siamo riusciti a scaricarla sulla Lega e sui grillini»: la rapida e indolore assemblea dei senatori dem si è appena conclusa e Matteo Renzi indugia a Palazzo Madama con un gruppetto di fedelissimi. Ai suoi l’ex segretario pone bruscamente un interrogativo: «Ma avete per caso visto dentro il Pd una linea alternativa alla mia?».

Consultazioni e governo di tregua. Scaduto il tempo concesso alla politica per associarsi in una maggioranza e dare un governo al Paese, Sergio Mattarella domani tirerà le somme di questa lunga fase. Insomma: dopo aver atteso l’esito della direzione del Pd di oggi, prenderà un’iniziativa. Non ha ancora deciso, ma potrebbe trattarsi di un giro «ultimativo» di consultazioni. A questo punto magari anche parziale. Il condizionale è d’obbligo perché restano ancora inevase troppe domande e aperte pochissime alternative. Soprattutto una: l’ipotesi di un preincarico sulla base di un’intesa tra centrodestra e Pd, stavolta con la cooptazione della Lega. Ma se nessuno cambia posizione, il Presidente non potrà far altro che mettere in gioco se stesso. Risulta che stia lavorando a un governo di tregua. Mattarella ne vorrà ragionare con i vari protagonisti. Si preannuncia un terzo giro di consultazioni, finalizzato a sondare l’accoglienza che riceverebbe in Parlamento un esecutivo guidato dal presidente del Senato, o della Camera, o da qualche altra figura semi-istituzionale, con un orizzonte temporale molto limitato: il governo di tregua durerebbe al massimo fino a dicembre, per poi tornare alle urne nella primavera 2019.

Economia e finanza

Bilancio Ue. Sarà una battaglia acerrima, molto più dura di quelle che l’hanno preceduta perché questa volta, ha riassunto ieri il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker presentando la sua proposta, il nuovo bilancio settennale (2021-27) dell’Unione dovrà «fare di più con meno risorse». L’uscita della Gran Bretagna apre un buco da 12-14 miliardi sul lato delle entrate e le nuove politiche strategiche comportano nuove spese annue per 8-10 miliardi. Vari Paesi membri hanno già annunciato opposizioni alla proposta di bilancio, quantificato in ben 1.279 miliardi di euro. Juncker, che ha presentato il progetto all’Europarlamento con il commissario Ue per il Bilancio, il tedesco Günther Oettinger, ha ammesso di attendersi un confronto duro perché «ogni premier difende gli interessi del suo Paese» nel lungo negoziato nel livello decisionale del Consiglio dei 27 governi, integrato dal contributo co-decisionale degli eurodeputati. La Francia ha rigettato l’ipotesi di forte taglio ai fondi Ue per l’agricoltura, appoggiata dall’Italia, che contesta anche il ridimensionamento di quelli di «coesione» per le aree meno sviluppate.

Stime Istat e stallo politico. Meglio del previsto. La stima preliminare dell’Istat (+0,3% nel primo trimestre ’18) mitiga la sensazione diffusa tra gli analisi di un netto rallentamento dell’economia reale. La frenata che risulta evidente nelle prime stime riferite all’Eurozona (un +0,4% che però ha alle spalle un +0,7% del precedente trimestre) da noi fortunatamente non è marcata, anzi nel periodo gennaio-marzo il Pil ha viaggiato alla stessa velocità del secondo semestre del 17. II guaio è che ad aver rallentato sono stati l’industria e l’export, due driver che — come sottolinea l’Istat — sono stati solo temporaneamente surrogati da un maggiore valore aggiunto generato dai servizi, ma anche due «motori» senza i quali il sistema Italia obiettivamente non va molto lontano. Se pur incoraggiante e anche leggermente al di sopra delle aspettative, l’incremento dello 0,3%del Pil nel primo trimestre dell’anno non induce ad abbassare la guardia e richiede che nel perdurante stallo politico del dopo voto si giunga al più presto alla formazione di un Governo in grado, quantomeno, di consolidare il risultato fin qui raggiunto. Una variazione acquisita dello 0,8% e un tendenziale dell’1,4% (il governo nel Def pre vede l’1,5% ),non mette del tutto al riparo la nostra economia dai rischi evidenziati dal Fmi per l’economia mondiale, a causa soprattutto del rischio dazi.

Politica estera

Trump convocato per il Russiagate. Messo alle strette dalla minaccia di un “subpoena” del magistrato speciale del Russiagate, Robert Mueller, che potrebbe costringerlo a testimoniare davanti al gran giuri, Donald Trump contrattacca. Ripete, in una raffica di tweet, che non c’è stata alcuna collusione tra il suo team elettorale e i russi: <Un sistema truccato. Non vogliono consegnare documenti al Congresso. Di cosa hanno paura? Perché così tanti omissis? Perché questa “giustizia” iniqua? Ad un certo punto non avrò altra scelta che usare i poteri garantiti alla presidenza ed essere coinvolto!>. Ma che significa, questa contro-minaccia trumpiana? È forse il preludio di un licenziamento in massa di magistrati scomodi e vari dirigenti del ministero della giustizia, a cominciare dal numero due, Rod Rosenstein, su cui si accanisce la destra repubblicana? Una “strage” del genere, molto simile ai disperati di Richard Nixon di salvarsi dal Watergate, provocherebbe un corto circuito politico con contraccolpi istituzionali.

Abu Mazen sotto accusa. Una «lezione di storia» che ha affossato la credibilità del presidente palestinese Abu Mazen più di mille sconfitte. L’82enne leader si è lasciato andare, la sera di lunedì, a una divagazione sull’antisemitismo e le persecuzioni degli ebrei che ha suscitato un’ondata di indignazione in tutto il mondo e allontanato ancor più l’ipotesi di un rilancio dei negoziati di pace con Israele. Il momento era importante, e sotto i riflettori dei media, perché Abu Mazen parlava agli oltre 700 rappresentanti del Consiglio nazionale palestinese, un organo rappresentativo di tutte le fazioni, riunito dopo nove anni in vista del trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, il 14 maggio. E qui il leader si è lasciato andare. Tutte le persecuzioni, fino all’Olocausto, ha spiegato, non sono state provocate dall’odio per gli ebrei ma dalla loro «funzione sociale», cioè dal fatto che praticavano «l’usura e attività bancarie simili».
«Una volta negazionista, negazionista per sempre», ha commentato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. E’ dovuto intervenire anche Heiko Maas, il ministro degli Esteri tedesco, per riprendersi in nome della Germania quelle responsabilità che il rais gli aveva tolto dalle spalle storiche: «Il nostro Paese si è reso colpevole di uno dei crimini più crudeli».