Politica Interna
M5S – Lega, asse sulle Camere. C’è un solo un accordo definito e siglato tra Lega ed M5S. Ed è un accordo «di metodo», come lo definisce Luigi Di Maio. «Le presidenze delle camere andranno ai vincitori». Ora, chi siano nella sua testa i vincitori, oltre al M5S, se intenda la Lega, come vorrebbe lui, o l’intero centrodestra, è stato argomento di discussione nelle consultazioni telefoniche del leader grillino con Piero Grasso di Leu, Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, Maurizio Martina del Pd, Renato Brunetta di Forza Italia e Matteo Salvini della Lega. Sullo sfondo si agita l’ipotesi di un’alleanza di governo tra leghisti e grillini, vero tema in cima ai pensieri di tutti i protagonisti politici di questa fase di crisi post-voto. Con Matteo Salvini abbiamo convenuto sulla necessità di far partire il Parlamento quanto prima…», scrive Luigi Di Maio sul Blog delle Stelle. La trattativa è ancora in alto mare. E sul passaggio successivo, quello della formazione di un nuovo governo, la nebbia è ancora più fitta. M5S e Lega continuano a flirtare e, per questo, il segretario Salvini non si sottrae agli esercizi di equilibrismo, aprendo cautamente a Di Maio senza però rompere con i suoi alleati: «Prima ho il dovere di confrontarmi con il centrodestra. Dopo di che nulla è impossibile, io sono disponibile a parlare con tutti. Sul M5S voglio capire. Hanno detto tante cose anche sulla Lega. Ci sono tanti punti in comune, c’è una base di partenza. Difficilmente potrei andare a governare con Renzi e Boschi». Mai un governo di centrodestra sostenuto in qualche modo dal Pd, azzarda Salvini. Ma dal centrodestra si alzano voci che lo invitano a non fare passi avventati. Se il silenzio dei vertici di Forza Italia è quasi clamoroso, l’anima filo berlusconiana della Lega si affida alle parole di Roberto Maroni: «Salvini può aspettare, gli auguro di diventare premier. Ma spero che il centrodestra, un patrimonio che abbiamo creato con Bossi, non venga distrutto».
Pd, scontro sui 5 Stelle. Il no all’Aventino spacca i dem. La partita vera è al fischio di inizio e il Pd prova a giocarla, pur sapendo di essere tagliato fuori dal primo accordo che i grillini sarebbero in procinto di chiudere: quello col centrodestra per spartirsi le poltrone di Camera e Senato. Almeno questa è l’impressione che Maurizio Martina ha tratto dal suo colloquio con il leader pentastellato. Una telefonata che il reggente del Pd ha affrontato provando a sfoderare un piglio orgoglioso. «Guarda Di Maio che noi ci siamo, siamo il secondo partito in termini di voti e anche noi avremmo da mettere in campo diverse figure all’altezza del compito». Come a dire, «siccome ci stai dicendo che tieni sganciato il tema del governo dal tema delle presidenze, discutiamo dei profili più idonei». Insomma, l’atteggiamento del Pd non è pregiudizialmente ostile. E Martina si può sbilanciare pure in virtù del fatto che proprio i grillini hanno esordito giorni fa dicendo di voler tenere separati i piani. «Ma per noi – ha messo le mani avanti Martina – dipende dai profili che vengono avanzati per le presidenze e quindi vogliamo capire le proposte messe in campo, perché non sono una cosa indifferente».Un’apertura al dialogo che riceve la “benedizione” di Gentiloni e Franceschini, l’inedito asse destinato a cambiare gli equilibri nel partito. Ma che invece ai renziani non piace neanche un po’. Parte quindi una rivolta via Twitter e Facebook per prendere le distanze sia da Martina che da Walter Veltroni, il quale ha sostenuto la stessa cosa in un’intervista al Corriere della sera. Andrea Marcucci, renziano doc e indicato come prossimo capogruppo al Senato, dà l’altolà: «Chi continua a sostenere a qualsiasi titolo, l’esigenza di un’apertura del Pd a un governo del M5Stelle, non ha a cuore futuro del Pd, ma la sua estinzione». I renziani irritati ritengono non possa esserci alcun dialogo con i grillini, perché la strada dell’opposizione è quella da intraprendere (e su questo tutti sono d’accordo), e non ci sono subordinate. La faglia nel Pd si allarga.
Politica Estera
Plebiscito per Putin: quarta vittoria. Vladimir Putin ha vinto le presidenziali in Russia. Guiderà il Paese per la quarta volta. II nuovo mandato gli consentirà di restare al Cremlino per i prossimi 6 anni, fino al 2024. I dati gli attribuiscono il 76,5 per cento dei voti quando è stato scrutinato oltre il 90% delle schede. Con un’affluenza superiore al 67%. Al secondo posto il candidato del partito comunista Pavel Grudinin con il 12%. «Perseguiteremo dappertutto i terroristi e quando li scoveremo li butteremo dritti nella tazza del cesso». Questa la sua filosofia. Ma il contrasto al terrorismo islamico, un incubo destabilizzante per la Federazione russa, avrebbe portato sia alla vittoria in Cecenia, sia alla decisione di fare la guerra all’Isis in Siria. Un merito, aver contribuito a sbaragliare le bande nere del Califfo, riconosciuto nonostante le polemiche sugli “effetti collaterali” sui civili dei raid al fianco di Assad contro le enclave ribelli. Nei suoi discorsi, sempre, l’interesse nazionale russo al primo posto, il sovranismo fondato sui valori culturali e religiosi della tradizione russa contro “globalizzazione”. La forza morale come contrappeso della fragilità economica post-sovietica. E sullo scontro con il Regno Unito Putin ha offerto collaborazione a Londra: «Sono un membro della vostra squadra. Il successo è il nostro destino. Mettiamoci insieme al lavoro in nome della Russia. Abbiamo davanti sfide enormi, ora serve una svolta. Grazie». Poco più tardi, in conferenza stampa, parla per la prima volta del tentato omicidio della spia Serghej Skripal e della figlia Julija. «Sciocchezze», dice. «Abbiamo distrutto tutto il nostro arsenale chimico. Ma siamo pronti a cooperare con la Gran Bretagna». Il suo portavoce dice: «Ringraziamo May».
Nuovi dazi Usa contro la Cina. Gli Stati Uniti hanno interrotto il dialogo economico con la Cina, nel senso che hanno sospeso un forum usato dal 2008 per risolvere le loro dispute, chiamato Comprehensive Economic Dialogue. I colloqui proseguono a livello di ministri, ma questa decisione sembra anticipare l’arrivo di nuovi dazi per almeno 30 miliardi di dollari, che Washington si prepara ad imporre a Pechino nei prossimi giorni. L’annuncio lo ha fatto David Malpass, sottosegretario al Tesoro per gli Affari Internazionali, intervenendo ad una conferenza preparatoria per il G20 di Buenos Aires. «I loro mercati – ha spiegato – non adottano la pratica della reciprocità. Per gli altri Paesi non c’è la possibilità di lavorare in Cina, come la Cina lavora altrove». Per questa ragione, Malpass ha rivelato di aver sospeso il Comprehensive Economic Dialogue, perché questo formato di discussione non ha dato i risultati sperati. Più tardi il ministero a Washington ha provato a moderare l’impatto della mossa. Il portavoce Tony Sayegh ha twittato: «Correzione: il Tesoro non ha “dato discontinuità” al “Dialogo economico” tra Usa e Cina. Il Segretario Steven Mnuchin terrà frequenti conversazioni private con dirigenti di alto livello e noi contiamo che queste conversazioni potranno proseguire». Il «Comprehensive Economic Dialogue» fu istituito il primo aprile 2009 con un accordo tra Barack Obama e l’allora leader cinese Hu Jintao. L’idea era di attivare un canale di confronto diretto e costante tra le due super potenze economiche del pianeta: la premessa, secondo i piani di Obama, di una migliore cooperazione. Ma ora il contesto è completamente diverso. Trump ha già imposto i dazi su acciaio e alluminio: misure che entrano in vigore il 23 marzo e che intralceranno la sovrapproduzione cinese. Ma è in arrivo un altro pacchetto di restrizioni da 30 miliardi di dollari sulle manifatture e i prodotti tecnologici made in China. Inoltre Washington studia una stretta sui visti per i cittadini cinesi e da tempo sta esaminando eventuali penalità per i furti sui diritti intellettuali attribuiti al governo di Pechino.
Economia e Finanza
Sanità, Comuni e scuola: contratti ancora al palo. Da gennaio 2019 si perde fino al 24% degli incrementi dei nuovi contratti. Via libera già in marzo a nuovi importi e arretrati per ministeri, agenzie fiscali, Inps e Aci: per gli altri comparti probabile in aprile. Oltre tre milioni di interessati. L’aggiornamento dello stipendio arriva dopo otto anni di blocco. La partita si riaprirà a breve perchè le intese riguardano il triennio 2016-18. Gli aumenti prodotti dai rinnovi contrattuali degli statali sono arrivati nelle buste paga di marzo, e quelli per sanità, enti territoriali e scuola arriveranno tra aprile e maggio. Attenzione, però: per oltre due dei tre milioni di dipendenti pubblici una parte degli aumenti sarà temporaneo. Gli «85 euro medi» di aumento promessi dall’intesa governo-sindacati del 2016, infatti, si raggiungono solo grazie a un «elemento perequativo», un bonus temporaneo che uscirà di scena dal 1 gennaio. Il bonus cresce al diminuire del reddito, per cui la “perdita” si concentrerà sulle parti basse della gerarchia. In media, si perderà per strada il 23,6% di aumento negli enti locali e il 21,7% in sanità. Dai sindacati trapela un po’ di preoccupazione, anche vista la delicata fase istituzionale seguita alle elezioni del 4 marzo. Il timore è che ci sia meno pressione politica sulla vicenda e quindi che i tempi si allunghino. «Auspichiamo che lo stallo della politica non incida sul completamento dell’iter visto che la vigenza dei contratti, tra l’altro termina il 31 dicembre di quest’anno» ha detto Ignazio Ganga, segretario confederale della Cisl, ricordando che i rinnovi appena conclusi riguardano il triennio 2016-2018 e dunque a partire dal 1 gennaio 2019, in teoria, si riapriranno le trattative per i nuovi contratti.
Il lavoro cresce ma soltanto in mezza Italia. Sorpresa, la crisi è ormai alle nostre spalle, crescono Pil e occupati, ma nel 2017 comunque – meno della metà delle province italiane ha visto crescere i posti di lavoro: appena 52 su 107 presentano il segno più, 18 sono praticamente ferme, le 5 sarde dopo il riordino non sono classificabili, mentre le altre 32 arretrano. Non solo, ma di queste 52 «lepri» appena 22 riescono migliorano rispetto al 2008. Tutte le altre restano invece ben lontane dai livelli pre-crisi. Elaborando gli ultimi dati messi a disposizione dalI’Istat si ottiene una fotografia inaspettata del Paese. Non c’è infatti una spaccatura secca, con un Nord che va bene contrapposto ad un Sud che arranca, come ha sancito anche la recente tornata elettorale; ma c’è piuttosto un Nord che ha ripreso a correre, e che però presenta ancora tante zone di sofferenza, e un Sud sempre molto in ritardo, dove per fortuna si registrano però i segnali più forti di vitalità. Il 2017 sarà anche ricordato come l’anno d’oro dei fondi pensione istituzionali globali. Le cifre fanno davvero impressione. I pensionati assicurati, in varie forme, nei 22 Paesi studiati da Willis Towers Watson possono festeggiare l’anno con il più elevato incremento mai registrato del loro patrimonio: 4,8 trilioni di dollari, il 13% in più. Secondo l’ultima relazione Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, gli italiani iscritti a fine 2017 a forme complementari erano 8 milioni e 341 mila, in crescita del 7,1%. Nelle offerte pensionistiche di mercato, i fondi aperti hanno raggiunto un milione e 374 mila iscritti. I nuovi Pip interessano 3 milioni e 103 mila persone con un aumento dell’8,1%. Il patrimonio complessivo oscilla intorno ai 200 miliardi, in linea con le stime Willis Towers Watson. Siamo molto lontani dalle performance dei fondi esteri. «La nostra industria pensionistica – spiega Mario Padula, presidente di Covip – può e deve crescere ma non è affatto fragile. Lo dimostrerà, in maggio, il prossimo rapporto Ocse. Ora però vi sono delle importanti novità che potranno irrobustire soprattutto il secondo pilastro e i fondi negoziali. La possibilità di devolvere ai fondi negoziali anche una percentuale del Tfr, prima o si versava tutto o niente».