Politica Interna
Via le correnti di sinistra dalle toghe». Bufera sulla Lega anti-giudici. Ancora la Lega contro la magistratura. Dopo il caso Salvini scoppia il caso Morrone, passato dalla poltrona di segretario della Lega in Romagna a quella di sottosegretario alla Giustizia. L’occasione è stata un corso di formazione per giovani magistrati, organizzato ieri mattina dal Csm. Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia, non ha usato perifrasi: «Auspico che la magistratura si liberi dalle correnti, in particolare di quelle di sinistra». La polemica è esplosa immediata nel mondo delle toghe ed è andata avanti per tutta la giornata. Lì per lì la sala del corso del Csm si è riempita di forti brusii, mentre Antonello Ardituro, – consigliere togato del Csm di Area – ha alzato la sua voce in una vibrante protesta. Subito dopo ci ha pensato lo stesso vice-presidente del Csm Giovanni Legnini a mostrare tutta la sua indignazione: «Sono parole che non possono essere né condivise né accettate quelle di Morrone, pronunciate in una sede inopportuna ad una platea di giovanissimi magistrati». Legnini ha chiamato in ballo direttamente Bonafede: «Telefonerò e scriverò al ministro della Giustizia per informarlo e chiedere di assumere delle determinazioni». Anche l’Anm è intervenuta in maniera molto decisa, in piena sintonia con Legnini: «Le parole del sottosegretario Morrone sono gravi e inaccettabili. L’Anm stigmatizza il contenuto di queste gravissime affermazioni e ribadisce il ruolo fondamentale di tutti i gruppi associativi all’interno della magistratura, in quanto garanzia di pluralismo». Scoppia una nuova tempesta istituzionale destinata ad approdare sul tavolo di Mattarella, nella sua veste di presidente del Csm. E intanto è tempo di rinnovo delle cariche al Consiglio superiore della magistratura. I novemila togati italiani votano domani e lunedì per eleggere 16 rappresentanti; a seguire, subito dopo toccherebbe al Parlamento per altri 8, però la politica è in alto mare. E per l’insediamento del nuovo Csm si dovrà attendere l’autunno.
Martina segretario a tempo: primarie all’inizio del 2019. «Prima di tutto spalanchiamo porte e finestre». E’ lo slogan lanciato da Maurizio Martina alla vigilia dell’assemblea del Pd che si apre oggi all’Ergife di Roma. Bisogna ripartire dai temi, dice il segretario reggente. Bisogna, insomma, ricostruire un modello politico fatto di priorità sociali, interrogando appunto la società civile. Quindi rimettendo in moto i capillari più esterni del tessuto connettivo del partito. Sarà segretario per poco. Martina alla fine ha accettato di portare il Pd alle primarie prima delle europee di maggio, quindi a febbraio o marzo 2019. Dovrà perciò dimettersi a novembre prossimo dall’incarico che l’Assemblea dei mille delegati oggi all’Hotel Ergife di Roma è pronta ad affidargli. L’accordo per accelerare i tempi del congresso è stato trovato ieri dopo una lunga riunione al Nazareno e vede una rara unità: da Matteo Renzi a Gianni Cuperlo, Andrea Orlando e Dario Franceschini. Martina, attuale reggente, avrà pieni poteri per guidare i dem solo per cinque mesi. Ha tuttavia l’idea di fare partire una fase costituente, riscrivendo la carta dei valori, le regole e lo statuto. «L’importante è l’unità del partito e avviare un lavoro straordinario», dice Martina ieri sera, dopo essersi preso una pausa di riflessione, sollecitato da Cuperlo a privilegiare su tutto l’unità. La battaglia all’interno della corrente di maggioranza, però, riguarda come sempre la leadership. Vogliono un renziano. In gioco, infatti, c’è la leadership che dovrà affrontare la delicata partita delle Europee (in programma a fine maggio). Perdendo l’eventuale partita del segretario (c’è l’incognita della candidatura di Nicola Zingaretti che pesa come un’inquietante spada di Damocle sul Nazareno), i renziani vorrebbero assicurarsi ruoli chiave all’interno della Segreteria. E già prenotano la poltrona dell’organizzazione (è stato fatto il nome di Luca Lotti). Mentre sembra certa la conferma di Francesco Bonifazi come tesoriere e di Matteo Orfini come presidente.
Politica Estera
Theresa May doma i ribelli. Sarà «soft Brexit». Il giorno più lungo di Theresa May si conclude con un buon risultato, almeno per lei: mantiene il posto. I ministri “ribelli” che minacciavano di dimettersi e poi di chiedere un voto di sfiducia per detronizzarla, non si sono dimessi: e, soprattutto, la premier ha fatto un altro passo in direzione di quella uscita «morbida» dalla Ue verso la quale si è ormai orientata per necessità. Ieri la May aveva convocato l’esecutivo al gran completo: un conclave blindato, tanto che ai ministri erano stati sequestrati i telefonini. L’obiettivo era trovare una posizione comune sulla Brexit: a oltre due anni dal referendum, il governo è ancora diviso fra sostenitori di una uscita «soft» e fautori di una rottura «hard». Nelle ultime settimane era emerso con chiarezza che la premier si stava orientando verso un’uscita «morbida», con l’obiettivo di mantenere la Gran Bretagna allineata al mercato comune ed evitare contraccolpi negativi sull’economia. Ma la fazione dei Brexitieri duri e puri aveva cominciato a far rullare i tamburi di guerra: alla vigilia del conclave Boris Johnson, che è il loro leader di fatto nel governo, aveva riunito i suoi accoliti per mettere a punto una controffensiva. Ed era dovuto intervenire l’ex premier David Cameron per calmare i bollori del ministro degli Esteri, del quale non si escludevano clamorose dimissioni che avrebbero messo a rischio la tenuta dell’esecutivo. Alla fine, la leader ha convinto l’intero governo ad approvare la nuova proposta per la Brexit: una “area di libero scambio” fra Gran Bretagna e Unione Europea, che dovrebbe eliminare la necessità di dazi sull’import-export di merci, mantenere aperta la frontiera fra le due Irlande (salvaguardando la pace nella regione) e al tempo stesso però permettere al Regno Unito di controllare l’immigrazione e stringere patti commerciali con altri Paesi. Resta da vedere se questo faticoso compromesso verrà accettato da Bruxelles. Tuttavia il capo negoziatore Ue Michel Barnier manda un segnale di apertura: «Se Londra ammorbidisce le sue posizioni, noi siamo pronti a un compromesso».
Thailandia: ragazzi nella grotta: rinviato il salvataggio. Bisogna fare in fretta per salvare i dodici ragazzi più il loro allenatore intrappolati da 14 giorni nella grotta in Thailandia. Ora e una lotta contro l’orologio: 24 ore massimo per tirarli fuori sani e salvi. I ragazzi, più passa il tempo, rischiano anche danni al cuore e al cervello. Un intero Paese aspetta con trepidazione il lieto fine. Ma proprio ieri un soccorritore è morto nella cava. I suo compagni: «Riposa in pace, Saman. Noi andiamo a compiere la missione. Proprio come volevi tu». L’ossigeno sta diminuendo e le piogge monsoniche stanno arrivando: in superficie aumentano ansia, incertezza e confusione. Ancora non si sa come salvare il gruppo, si teme di fare la scelta sbagliata che causi nuove vittime. Nella improvvisata e caotica cittadella allestita vicino alle delle grotte, una tendopoli con migliaia di soldati, familiari, monachi che pregano, troupe di tv di tutto il mondo, inviati e fotografi, nel tardo pomeriggio era stata annunciata la conferenza stampa del ministro dell’Interno thailandese, Anupong Paojinda che ha alimentato le aspettative dell’avvio dell’operazione di salvataggio. C’era anche una seconda ipotesi: i ragazzi sarebbero stati prelevati da un pozzo, un passaggio trovato sopra le grotte, a circa 200-300 metri, ma poco dopo è stato spiegato che il trivellamento non è riuscito. «Siamo preoccupati per il maltempo e per la carenza di ossigeno nella caverna», ha ripetuto il governatore Narongsak. L’ossigeno è al 15%, percentuale molto bassa, contro il minimo richiesto dall’organismo di 22. Per questo il governatore ha messo per la prima volta la qualità dell’aria tra i fattori maggiori di rischio assieme al tempo. Se inizia a piovere, l’alternativa sarà tra un’evacuazione a fine monsone e una a marzo quando le acque saranno tutte tornate nel ventre della terra.
Economia e Finanza
Di Maio: un piano fiscale per aiutare le partite Iva. «È necessaria una flat tax indiretta per le partite Iva, da inserire nella prossima legge di stabilità». L’idea circolava da tempo tra i banchi leghisti, ma sono gli uomini del M5S ad aver mosso nelle ultime ore i primi passi concreti, definendo i contorni del piano. I destinatari della proposta coincidono con quella fascia di elettorato cara al partito di Luigi Di Maio: professionisti, start-up, piccole e medie imprese. Infatti Di Maio afferma che il taglio del cuneo fiscale «interesserà le imprese più deboli e le eccellenze, quindi le pmi con precise mission, come il made in Italy, le nuove tecnologie. Il dibattito parlamentare potrebbe inserirlo già nel decreto dignità». L’obiettivo è quello di allargare la platea delle partite Iva che godono di un regime forfettario. Il vantaggio del forfait è costituito da una tassazione sostitutiva al 15%; gli adempimenti burocratici, poi, sono molto più snelli, senza spesometro né fattura elettronica obbligatoria tra privati. Per poter rientrare nel regime forfettario, però, sono stati posti dei limiti di guadagno annui. Attualmente, la soglia per la categoria di «commercianti all’ingrosso e al dettaglio» e per la più vasta categoria delle «attività professionistiche, scientifiche, sanitarie e tecniche» è fissata a 50 mila euro annui. Se superata, si abbandona il regime agevolato e si rientra in quello ordinario. E qui arriva la proposta del Movimento, che vuole alzare l’asticella a 80 mila euro, permettendo a chi guadagna di più di poter comunque rientrare nel regime forfettario. La cifra individuata non è casuale. La flat tax leghista, infatti, fissa un’aliquota del 15 per cento per i redditi familiari fino a 80 mila euro. Nel piano pentastellato sulle partite Iva, infine, si vorrebbero inserire misure ad hoc per chi innova. La strada passa dall’inserimento di una categoria riservata alle start-up che puntano sulle nuove tecnologie.
Savona e Tria: il piano investimenti del Tesoro. La sfida del ministro dell’Economia Giovanni Tria per rilanciare l’Italia si chiama investimenti. Lo dice e lo ripete in ogni occasione: ed in effetti gli investimenti pubblici, quelli cui si riferisce principalmente il ministro, sono in drastico calo. Basta vedere le cifre ufficiali che testimoniano come negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017 sono precipitati del 46,5%, scendendo da 24,9 a 13,3 miliardi. Colpa innanzitutto del sistema-Italia, oltre che della crisi economica, dall’illusione del Ponte sullo Stretto, di cui anche nella passata legislatura si è tentato un fugace rilancio, passando per la storia infinita della Salerno- Reggio Calabria conclusa dopo 30 anni di malversazioni e scandali, fino alla Tav la vicenda dove a bloccare l’innovazione infrastrutturale è proprio l’opposizione ambientalista dei grillini. La sfida del rilancio degli investimenti pubblici, cui sta lavorando il Tesoro, dovrà superare anche questi ostacoli: senza cedere alla tentazione di accantonare il codice degli appalti al quale i grandi costruttori imputano ritardi e eccessi burocratici ma che ha costituito un argine al malcostume. Che la priorità del ministro dell’Economia sia sempre stata quella degli investimenti, è noto. In passato si è sempre battuto per una nuova regola a livello europeo che li scorporasse dal deficit (la cosiddetta golden rule): un finanziamento in disavanzo «purché temporaneo e soggetto – scrisse lo stesso Tria – a solidi comportamenti fiscali da parte degli Stati membri dell’eurozona volti a perseguire la riduzione del debito». Nulla di più lontano dal pensare di scomputare i costi del reddito di cittadinanza e della flat tax. Sulla stessa linea è Paolo Savona, il quale pensa che occorra “partire dagli investimenti”, come rispose qualche settimana fa a chi gli chiedeva che cosa pensasse delle due promesse prioritarie di Salvini e Di Maio.