Politica interna
Alleanza giallo-verde. Nel gioco delle parti che ha preso vita l’altro ieri con l’approvazione del primo decreto del governo gialloverde, la pantomima si è allora consumata nella sua basilare rappresentazione. Pur trattandosi del passo iniziale di questo esecutivo, ad approvarlo e a mostrarlo c’era solo il grillino Luigi Di Maio. Mentre il presidente del Consiglio Conte confermava la sua presenza-assenza, l’altro “socio”, il leghista Salvini, era proprio assente. In modo plateale si trovava ad assistere al Palio di Siena. È esattamente la regola della convenienza che disciplina questa coalizione. Non si contesta il decreto, non si mette in crisi il patto di potere stretto con il Movimento 5 Stelle. Semplicemente non ci si mette la faccia. Si evita che l’immagine sia legata a quel testo. Salvini costruisce così il suo consenso. I sondaggi per ora lo premiano. Non c’è bisogno di governare il Paese. Basta comunicarlo. Del resto, il concordato alla base dell’alleanza gialloverde prevede la spartizione dell’elettorato in vista di un nuovo assetto politico che già viene denominato Terza Repubblica. Se il leader della Lega si è buttato a fidelizzarsi i sentimenti di un elettorato che viene definito di destra, Di Maio punta a quelli di un elettorato che viene ipotizzato come di sinistra. Aspettarsi però una rapida crisi della coalizione giallo-verde può essere prematuro. Certo non manca una concorrenza fra le sue componenti, ma quella concorrenza non può spingersi oltre un certo limite. Significherebbe far saltare il governo ed è una prospettiva che al momento non conviene né a Salvini né a Di Maio.
I fondi della Lega. Cercare “ovunque”, cercare “presso chiunque”. Cercare quei 49 milioni che la Lega deve restituire allo Stato, ai contribuenti, ai cittadini. Soldi frutto di una truffa sui rimborsi elettorali, come stabilito dal tribunale di Genova dopo la condanna dell’ex leader leghista Bossi e dell’ex tesoriere Belsito. Denaro che la procura non riesce a trovare, perché quei milioni dai conti del Carroccio, oggi guidato da Matteo Salvini, sono spariti. E sono anche al centro di un’inchiesta per riciclaggio, con il sospetto dei pm genovesi che siano finiti, almeno in parte, fino in Lussemburgo. La Corte di Cassazione ieri ha depositato le motivazioni della sentenza dello scorso 12 aprile, quando ha autorizzato il sequestro delle somme future che entreranno nelle casse del partito fino al raggiungimento dei 49 milioni. Gli inquirenti dopo aver fornito nuove prove tenteranno d’intervenire sulle disponibilità del Carroccio da Nord a Sud. Salvini a “In onda su La7” non si risparmia:«Quei 49 milioni di euro non ci sono, posso fare una colletta, ma è un processo politico che riguarda fatti di dieci anni fa su soldi che io non ho mai visto». Quando il senatore Pd Dario Panini ha chiesto in aula «per la quarta volta consecutiva» ai ministri Matteo Salvini e Alfonso Bonafede di venire a riferire in Parlamento sull’inchiesta, Bossi si è alzato dal suo posto e si è avventato verso Panini per interromperlo. La paralisi di partito, il non poter più andare avanti perché quel che entra in cassa deve essere subito congelato, è uno scenario che i vertici leghisti sono costretti ad affrontare; un’idea è fare finanziare le iniziative della Lega direttamente dagli eletti.
Economia e finanza
Decreto dignità. Sotto la cenere sparsa da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che ieri si sono scambiati parole di miele, sul decreto dignità tra Lega e 5 stelle cova un dissenso profondo. Gli eletti della Lega sono subissati dalle telefonate di imprenditori del nord arrabbiati e delusi. La durissima nota di Confindustria, che arriva mentre a Palazzo Chigi Di Maio illustrando il “suo” decreto insieme al premier Conte e al sottosegretario Giorgetti, non sorprende nessuno. «Si tratta del primo vero atto collegiale del nuovo esecutivo e anche per questo è un segnale molto negativo — dice l’associazione degli industriali — il risultato sarà di avere meno lavoro, non meno precarietà». Per Di Maio è la «Waterloo del precariato» e dunque il grimaldello con cui scardinare il Jobs Act di Renzi. Nel testo c’è il contrasto alle multinazionali che delocalizzano, c’è la promessa del ministro di «tutelare i lavoratori onesti senza danneggiare le imprese oneste» e c’è il divieto alla pubblicità del gioco d’azzardo con vincite in denaro, escluse le lotterie nazionali. Conte tenta di rassicurare: «Adotteremo misure per incentivare le attività imprenditoriali. Vogliamo una sana alleanza con il mondo del lavoro e delle imprese». E anche Luigi Di Maio, prometteva un taglio del cuneo fiscale nella prossima legge di Bilancio, ammettendo però che potrà essere solo «selettivo», riservato «alle imprese che hanno maggiori possibilità di crescere». Rassicurazioni a parte, che la Lega cercherà di cambiare il decreto è confermato dalle parole dello stesso Salvini: «Di Maio ha tutto il mio sostegno — ha detto a La 7 — io avrei aggiunto qualche passaggio, ad esempio in agricoltura e nel turismo i voucher servono, ma il Parlamento arricchirà un provvedimento che condivido».
Verso il Def. L’obiettivo è «ambizioso», e lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia Giovanni Tria illustrando il programma di politica economica alle commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato. Welfare, fisco e investimenti saranno nell’agenda di tre task force che dovranno produrre risultati «entro settembre»: il reddito di cittadinanza è «ben definito ma si può articolare in vari modi», e il gruppo di lavoro sul tema dovrà fare una «due diligence sulla spesa per le politiche di welfare» per far quadrare i conti con gli obiettivi di riforma. La squadra interministeriale sul fisco dovrà studiare la Flat Tax da attuare a tappe e «in un quadro coerente di politica fiscale». L’attesa era tuttavia per lo schema su cui sarà articolata la nota di aggiornamento al Def di settembre. Due la affermazioni chiave. La prima è il “non aumento della spesa nominale per parte corrente”, significa che la spesa per stipendi, pensioni e sanità dovrà restare ai livelli del 2018 e non crescere come previsto dagli andamenti tendenziali del Def di aprile lasciato in eredità dal precedente governo. La seconda affermazione riguarda il «non aumento» del deficit strutturale, quello al netto della congiuntura, ossessione dei negoziati con Bruxelles: non aumentare significa restare nel 2019 alli per cento previsto per quest’anno e dunque non scendere allo 0,4 del Pil ma lasciare un margine in eventuale deficit per finanziare la sterilizzazione dell’Iva.
Politica estera
Emergenza migranti. Governi che rischiano di cadere. Ministri dell’Interno che gridano all’invasione. Schengen che scricchiola. È una tempesta perfetta quella scatenata dall’emergenza migranti. «Quello delle migrazioni è un fenomeno di enorme portata, che nessun Paese può affrontare da solo. O lo affrontiamo insieme o travolgerà tutti, anche coloro che se ne sentono immuni perché lontani dalle coste del Mediterraneo. (…). Bisogna, insomma, risolvere in Africa i problemi che spingono tanta gente a emigrare. Bisogna organizzare là campi per i richiedenti asilo, sotto l’egida Onu. E garantire aiuti al continente africano e aprire canali legali e controllati di arrivo, stroncando il traffico di esseri umani». Sergio Mattarella decide di affiancare il governo con un esplicito sostegno alla strategia che il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, al suo fianco nella visita alle Repubbliche Baltiche, evoca da Riga, segnalando l’urgenza di «far nascere nei Paesi costieri a Sud del Mediterraneo dei centri dove garantire condizioni umanitarie dignitose». Il concetto a Riga è stato ben colto e lo stesso, si spera, avverrà pure a Tallinn e a Vilnius che Mattarella si accinge a visitare. La chiave è l’Africa. È lì che bisogna intervenire affrontando i mali all’origine del grande esodo: guerre, carestie, clima. Ed è in Africa che andrebbe stroncato sul nascere il traffico degli esseri umani.
Schengen in crisi. Ecco il temuto effetto domino innescato dai populisti di mezza Europa, capace di mettere in ginocchio Schengen e far tremare la stessa Unione. Angela Merkel pressata da Horst Seehofer – ministro dell’Interno tedesco e alleato bavarese di Matteo Salvini – per salvare il suo governo accetta di respingere i migranti registrati in altri paesi europei, in particolare dall’Italia, che attraverso l’Austria entrano in terra teutonica. Da Vienna fanno sapere che non se ne parla neppure di accogliere i clandestini respinti da Berlino, quindi si impedirà l’ingresso di qualunque migrante, solo o accompagnato dalla Polizei tedesca. E, giusto per evitare affollamenti, si metterà un tappo anche ai confini con l’Italia e la Slovenia. Tradotto, sono in procinto di chiudere il Brennero per mettere fine ai movimenti secondari. Se non è la fine dell’area Schengen di libera circolazione, ci somiglia molto. Per il momento i margini per un’intesa appaiono stretti. L’austriaco Kurz ha twittato che «se l’intesa diventasse ufficiale, Vienna farà il necessario per difendere il suo popolo». Non esattamente un’apertura. Dal lato italiano, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, ha spiegato che «nel caso l’Austria chiudesse il Brennero andrebbe contro lo spirito del Consiglio europeo per una gestione comune della migrazione». Ancora più esplicito, come d’abitudine, il collega dell’Interno Matteo Salvini: «Se l’Austria fa i controlli al Brennero, noi faremo altrettanto e ci guadagneremo pure perché sono molti di più quelli che vengono da noi di quelli che se ne vanno».