Politica interna
Mattarella: «Niente intese, serve tempo». Stavolta veste i panni del cronista e offre un titolo secco ai giornali: niente intese, serve ancora tempo. Ma fa soprattutto l’educatore civico, Sergio Mattarella. Per spiegare alla gente più o meno digiuna delle «regole della democrazia» e che magari si chiede come mai il proprio partito non sia già a Palazzo Chigi, che in realtà non ha vinto nessuno. Certo, hanno avuto «un ampio aumento di consenso», quelle due formazioni. Ma «a nessuno le elezioni hanno assegnato la maggioranza alla Camera e al Senato». Quindi né l’una né l’altra possono pretendere neppure un pre-incarico. Si muove per fare opera di trasparenza il capo dello gli hanno quando entra nella Loggia alla Vetrata. «Nessun partito e nessuno schieramento dispone, da solo, dei voti necessari per formare un governo e sostenerlo», dice. Il presidente offre qualche giorno di riflessione ai partiti. Quanto lunga sarà la pausa? Quantomeno fino a mercoledì prossimo (compreso), nella speranza che nuovi confronti portino frutto. Per Stefano Folli, su Repubblica, è chiaro che ancora una volta il Quirinale torna a porsi come baricentro della crisi. “Lo stile di Mattarella non è lo stesso di Napolitano, ma il ruolo istituzionale interpretato non solo in forma notarile è il medesimo quando il sistema si avvita nello stallo. Ce ne sarà bisogno nelle prossime settimane perché il cammino verso il nuovo governo resta lungo e accidentato. Niente di sorprendente, per la verità: solo la conferma che per ora non ci sono fatti nuovi sull’asse Di Maio-Salvini o per meglio dire Cinque Stelle-Lega più il resto del centrodestra, visto che Berlusconi non vuole essere tagliato fuori e Salvini non ha alcuna convenienza a escluderlo in questa fase. I sorrisi di Mattarella hanno lasciato capire a tutti che non c’è da preoccuparsi se i tempi saranno lunghi”.
Salvini: da Silvio sterzata filo dem, io sceglierò sempre il M5S. Silvio Berlusconi torna ad attaccare dal Quirinale i 5stelle coi toni rudi della campagna elettorale («Populisti, pauperisti, giustizialisti») compiendo un passo indietro. A fine giornata apparirà un leader all’angolo, isolato. Il pallino nelle mani di Luigi e Matteo. «Che devo dire? – spiega Salvini – Silvio Berlusconi questa mattina ha fatto una sterzata filo Pd e contro l’accordo…». Per l’intera giornata nella Lega è rimbombato lo sconcerto per le parole del leader di FI all’uscita dalle consultazioni al Colle. Resta il fatto che per il segretario leghista sarebbe assai difficile formare un governo Lega-5 Stelle senza centrodestra. Anche perché — lo dice Antonio Tajani — Salvini non potrebbe «andare a fare il numero due di Di Maio». Il capo leghista, però, trancia secco. Netto come mai fino a oggi: «Sarebbe difficile, questo è certo… Ma se io un giorno mi trovassi a un bivio, non ho nessun dubbio su chi sceglierei: tra il Partito democratico e i 5 Stelle scelgo sempre i 5 Stelle». Il governo del tandem Di Maio-Salvini si delinea all’orizzonte. Lo scenario si fa più chiaro, al termine del primo giro di consultazioni, solo in apparenza chiuso con un nulla di fatto. La formazione del futuro governo è tutt’altro che scontata, le alleanze ancora da costruire. Tanto che il capo politico del Movimento riporta in vita l’opzione di un accordo coi dem, toglie il veto su Matteo Renzi e pone Pd e Lega sullo stesso piano invitando l’uno o l’altro a un patto di governo. Scrive Massimo Franco sul Corriere della Sera che Luigi Di Maio, candidato a Palazzo Chigi, sta cercando di presentarsi come il nuovo perno dello schieramento politico italiano; e di trasformare il suo trasversalismo in una dote, più che in un’ambiguità e in un elemento di debolezza. L’idea di un «contratto alla tedesca» che dovrebbe ricordare quello tra Cdu e Spd in Germania, rivolto a «tutto il Pd» e alla Lega, riflette la stessa strategia: anche se trasuda tatticismo. I potenziali alleati vengono equiparati sapendo che non è così. L’equidistanza di Di Maio tende a dimostrare l’impossibilità di un’intesa col Pd. E punta al dialogo col Carroccio.
Politica estera
Il Niger dice no ai soldati italiani: alt alla missione. La partenza era prevista per giugno. Ma la missione dei soldati italiani in Niger, già approvata dal Parlamento nel gennaio scorso, è sospesa. Troppe resistenze a livello locale hanno convinto il presidente nigerino Mahamadou Issoufou a chiedere al nostro governo un rallentamento nelle procedure di invio del contingente, che di fatto si traduce in uno stop. Bloccata anche la partenza dei militari per la Tunisia: la richiesta di 60 uomini era stata fatta dalla Nato, ma in questo caso il premier Yussef al-Shed ha fatto sapere che sarebbe stato meglio evitare di darle seguito e tutto si è fermato. Circola l’ipotesi che sia stato il governo di Parigi a fare pressioni affinché il nostro Paese rimanesse fuori dalla Coalizione già presente con Stati Uniti e Germania. E prende corpo il 10 marzo scorso quando il ministro dell’Interno, Mohamed Bazoum, definisce la missione «inconcepibile» spiegando che l’unica possibilità è «d’invio di alcuni esperti, senza ruoli operativi». Oltre ad addestratori e a un team sanitario, il sostegno avrebbe dovuto riguardare il potenziamento del controllo alle frontiere, a fianco di Francia e Usa. Ma per capire come andrà a finire realmente bisognerà aspettare il prossimo governo e la linea che deciderà di seguire. Nel frattempo, il capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, intervenuto a un forum organizzato dall’Ansa e dal Centro studi internazionali, ha ribadito che «quanto avviene sulla sponda Sud del Mediterraneo è centrale per gli interessi dell’Italia». Dal canto suo Leonardo Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, già Consigliere Militare del Presidente del Consiglio dei Ministri e presidente della Fondazione Icsa, non ha dubbi: «Le ragioni di quanto sta accadendo risiedono nell’atteggiamento francese verosimilmente poco collaborativo, ad esser buoni, nei confronti di una visione della quale si dovrebbe invece impossessare l’Europa e che riguarda un approccio comune al fenomeno migratorio e quindi le sorti di Italia e Unione europea».
Brasile: Lula in cella entro oggi. «Un giorno tragico per la democrazia e per il Brasile», dice una nota del Pt, il Partito dei lavoratori che non riesce a immaginare un futuro senza il suo padre fondatore. Clacson in festa e i pupazzi gonfiabili di un galeotto con la barba conquistano intanto l’Avenida Paulista, la city di San Paolo dove otto abitanti su dieci detestano Lula e lo vogliono vedere dietro le sbarre. Ora l’impensabile fino a qualche anno fa è diventato realtà e già oggi per l’ex presidente del Brasile — il più popolare della sua storia e il più famoso nel mondo — si schiuderanno le porte di un carcere. Per scontare una dura pena a 12 anni e un mese per corruzione. II giudice Sergio Moro, il protagonista della Mani Pulite brasiliana, gli ha concesso «in considerazione della carica occupata nel passato» di consegnarsi spontaneamente a Curitiba entro le 17 di oggi. Lo staff legale di Lula presenterà dei nuovi ricorsi per vizi formali e incostituzionali alla stessa Corte Suprema, ma le chance di un annullamento del processo sono minime. E in ogni caso, dovrà fare tutto ciò da uomo non più libero. Il leone è stanco, ma vuole ancora lottare; ha detto di non essere sorpreso di come sia andata a finire. Lo considera, anzi, un naturale proseguimento della strategia anti-Pt iniziata con l’impeachment di Dilma Rousseff. «Non avrebbero fatto un golpe – ha detto ai suoi – per poi lasciarmi essere candidato». Pt ora regna lo sconforto, per non dire il panico su cosa potrà succedere adesso. Con Lula a piede libero e in pre-campagna per le elezioni di ottobre era impossibile parlare apertamente di un Piano B. Oggi diventa necessario, ma non c’è consenso su chi potrebbe presentarsi al posto suo.
Economia e Finanza
Cdp-Elliott, asse per la rete unica. La Cassa depositi e prestiti entra ufficialmente nella partita che deciderà le sorti della rete fissa di Telecom Italia. Un battaglia dall’esito comunque aperto e a rischio di prolungarsi in un combattimento per le vie legali. Ma che comunque lo Stato italiano, rappresentato in questa fase dal governo Gentiloni di comune accordo con le fondazione azioniste al 16% di Cdp, ha deciso di condurre un prima persona attraverso il suo braccio operativo. La scelta della Cassa di entrare nel capitale di un operatore telefonico nel bel mezzo di una contesa azionaria ha destato una certa sorpresa, anche perchè fare telefonia in senso lato non rientra nel core business della società infrastrutturale. Ma l’obiettivo non è certo scalare Telecom Italia. Il senso dell’operazione, illustrato ieri a un board che l’ha approvata all’unanimità, resta sempre lo stesso: ottenere lo scorporo della rete fissa da Tim. Per poi procedere alla fusione con Open Fiber. La discesa in campo di Cdp su Telecom scalda la Borsa. Il titolo ha riguadagnato quota 80 centesimi, con un balzo superiore al 5%. Presto per dire come finirà, ma difficilmente l’incumbent tricolore uscirà dalla partita con azionariato e governance immutate. Il 18 aprile si riunirà nuovamente il consiglio della Cassa e in quella sede si farà il punto su quali posizioni prendere nelle assemblee Telecom, a prescindere dalla possibilità o meno di esprimere consiglieri di amministrazione. Una posizione dunque che – si precisa – non è nè a favore di Elliott nè contro Bolloré. Di certo l’opportunità di intervenire è stata sollecitata dalla constatazione che la gestione Vivendi su Telecom, per usare un eufemismo, non ha prodotto un’accelerazione di investimenti sulla rete ma semmai il contrario. Quindi o cambia la musica o magari arrivano gli americani e si cambia spartito. Di fatto il timing è stato dettato dalle scadenze sulla presentazione delle liste per il rinnovo del cda Tim.
Gentiloni pronto a rinviare il Def . Il Documento di economia e finanza è sostanzialmente pronto, ma il governo uscente di Paolo Gentiloni potrebbe attendere ancora due o tre settimane prima di presentarlo in Parlamento. La scadenza, non perentoria, sarebbe quella del 10 aprile, ma se a seguito delle consultazioni appena avviate dal Quirinale emergessero gli spazi per la formazione di un nuovo esecutivo in tempi ragionevoli, il compito di elaborare e presentare il Def sarebbe lasciato ai nuovi inquilini di Palazzo Chigi e al nuovo titolare dell’Economia. Contatti in questo senso, confermano fonti dell’esecutivo, sono già in corso tra il premier in carica, Paolo Gentiloni, i nuovi presidenti della Camera, Roberto Fico, e del Senato, Elisabetta Casellati, e soprattutto i leader dei principali partiti. Se si andasse verso la formazione di un nuovo esecutivo, si sottolinea, sarebbe più logico che a presentare il Documento fosse il nuovo governo. A Gentiloni, invece, spetterebbe la presentazione del Def di fronte al protrarsi della crisi oltre le due o tre settimane. Se la crisi si protraesse oltre, Gentiloni presenterebbe un Def a politiche invariate». Senza nessuna previsione programmatica. E senza alcun impegno di correzione dei conti o di sterilizzazione delle clausole di salvaguardia sull’Iva. Gentiloni è arrivato a questa decisione dopo che, insieme al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ha sondato la Commissione europea. A Bruxelles non hanno chiuso la porta, ben consapevoli delle difficoltà post-elettorali in Italia: «La possibilità di un rinvio limitato nel tempo», fanno notare ancora a palazzo Chigi, «è stata considerata dalla Commissione anche sulla base di analoghi precedenti di coincidenza tra la scadenza del Def e cambiamenti di governo in singoli Paesi membri dell’Unione».