Politica Interna

Caos nomine, Conte resiste. Il premier Conte rivendica l’autonomia sulle nomine, a partire dalla scelta del commissario per il ponte di Genova. Qualcuno parla apertamente di «complotto». Di una manovra a tenaglia per mettere nell’angolo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ridurlo a più miti consigli. Cioè costringerlo a scelte diverse sul nuovo commissario per la ricostruzione del ponte di Genova. Sarebbe questo l’obiettivo della guerra di veline che si è scatenata in questi giorni, dopo il Consiglio dei ministri di giovedì, quando è stata approvato l’ormai famoso decreto «salvo intese». Così è accaduto che, a un certo punto, Conte ha alzato la mano in mezzo al diluvio di dichiarazioni e apparizioni social dei due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, e ha detto: «Su questo decido io». E il tavolo su cui ha scelto di misurare la propria autonomia è stato proprio il decreto di Genova, il mezzo normativo per sanare una ferita sociale, dove può mettere alla prova le sue capacità da giurista e guadagnarsi il favore della cittadinanza. Per questo Conte, dopo aver letto con stupore i retroscena e aver sentito volare i coltelli intorno a lui, tiene a precisare ai suoi collaboratori quello che qualcuno fa finta di non capire: «Io ascolto sempre tutti volentieri, ma le nomine le decido io. L’ultima parola, anche sul commissario per Genova, sarà la mia». Sarebbe scontato, se si trattasse di un premier qualunque. Non lo è per Conte, che non sarà quel burattino senza fili che qualcuno dipinge, ma certo ha un mandato limitato e vincolato dal contratto di governo firmato, prima del suo arrivo, dai due player della coalizione, Lega e 5 Stelle. Conte sa bene che non può agire in totale autonomia, ma tiene comunque a ricordare che il premier è lui e quindi sulle questioni fondamentali l’ultima parola spetta a lui.

Berlusconi-Salvini: intesa su Foa. Il sistema solare di Salvini prevede la congiunzione astrale con Di Maio per il governo nazionale e un’orbita satellitare di Berlusconi per le amministrazioni locali. Per usare un’espressione tipica del leader leghista, finché dura «è una pacchia», e infatti il ministro dell’Interno non ha alcuna voglia di cambiarlo. L’ha ripetuto ieri, prima della cena ad Arcore, garantendo che il contratto con i grillini è destinato a durare e che l’alleanza coi forzisti proseguirà a livello territoriale. Sotto il profilo politico, mediatico e numerico, lo schema sta producendo effetti molto positivi per il capo del Carroccio. Peraltro il rapporto con l’ex premier gli può venir utile in certi tornanti parlamentari, per superare fasi di stallo come quello sulla presidenza Rai: l’appoggio degli azzurri al suo candidato, Foa, serve a rinsaldare il legame e anche a dissipare i timori del Cavaliere, preoccupato dagli “atti ritorsivi” dei Cinquestelle contro la sua azienda. «Io il via libera per Marcello Foa alla presidenza Rai te lo do. Ma devi capire che deve esserci un minimo di coinvolgimento nostro nelle scelte, devi spiegarlo ai tuoi alleati». Silvio Berlusconi va subito al sodo con Matteo Salvini. Di cose da chiarire ne hanno parecchie dall’ultimo faccia a faccia del primo agosto: allora il Cavaliere aveva accolto l’alleato al San Raffaele dove era ricoverato. La stessa mattina in cui Forza Italia ha impallinato in Vigilanza l’elezione del candidato in quota Lega alla Rai. E siccome l’impasse persiste e la nuova riunione della Vigilanza è in programma mercoledì, Salvini ha fretta di chiudere. «Non capisco perché non possa passare Foa che è uomo di centrodestra, ha lavorato perfino nel tuo Giornale», rimarca il vicepremier. Il leader di Forza Italia replica che non si possono pretendere i suoi voti imponendo le scelte «senza alcun coinvolgimento». Salvini e Giorgetti abbozzano, sostengono che sarà una Rai non ostile a Berlusconi e ai suoi, che Foa «sarà un ottimo presidente». Ma il Cavaliere avrebbe ribattuto: «I tuoi soci al governo vogliono cancellarmi». E il riferimento è soprattutto alle sue aziende. Anche lì, Salvini indossa i panni del pompiere: «quella roba vedrai che non passerà, non permetteremo che si mettano in difficoltà Mediaset o le altre aziende».

Politica Estera

Il sindaco di Londra: “Voto bis per Brexit”. Sadiq Khan scende in campo per un secondo referendum sulla Brexit. Da sempre critico della decisione di uscire dall’Unione europea, il sindaco laburista di Londra si schiera a favore di una nuova consultazione popolare. In un articolo sull’Observer, Khan afferma che la scelta attuale è fra un “no deal” (lasciare la Ue senza alcun accordo per il futuro) e un “bad deal” (l’intesa proposta recentemente da Theresa May e finora respinta da Bruxelles). Perciò il sindaco, una delle figure più influenti del Labour, si unisce ai molti che chiedono di sentire di nuovo la voce del popolo, per una scelta ragionata (e meglio informata di quella “al buio” del referendum del 2016 sulla Brexit) tra “no deal” o qualunque accordo verrà raggiunto, da un lato; e rimanere nella Ue, dall’altro.Il motivo, quindi, ha spiegato Khan, è che ormai si profilano solo due possibilità, entrambe negative: o un cattivo accordo con Bruxelles o, ancora peggio, nessun accordo, ossia una uscita catastrofica dall’Unione. «Sono entrambe incredibilmente rischiose», ha scritto Khan, che chiede dunque di ridare la parola al popolo: «Questo significa un voto pubblico su ogni tipo di accordo ottenuto dal governo, oppure un voto su una Brexit senza accordi accanto all’opzione di rimanere nella Ue». «La gente non ha votato per lasciare la Ue allo scopo di diventare più povera – sottolinea il sindaco –  per vedere soffrire i propri affari, per avere gli ospedali senza personale medico, vedere la polizia prepararsi a disordini civili e la sicurezza nazionale messa a rischio». Il suo intervento aumenta la pressione sul leader laburista Jeremy Corbyn a schierarsi anche lui per un secondo referendum, come gli chiedono ampi settori del suo partito. Finora Corbyn è rimasto contrario, per non perdere l’appoggio degli elettori laburisti che hanno votato per la Brexit due anni fa. Ma un recente sondaggio indica che l’opinione pubblica sta cambiando idea e anche i sindacati, a cui Corbyn deve molto, sono ora per un secondo referendum.

Le Pen sposa la linea Salvini: “Insieme riprenderemo la Ue”. Al raduno della destra francese il volto del leader della Lega è ovunque: segno di un legame forte. Marine Le Pen si è salvinizzata. Nella foto i due sorridono in maniera ostentata: Marine Le Pen e Matteo Salvini. Sotto c’è scritto: «Ovunque in Europa le nostre idee arrivano al potere». Eccolo il nuovo manifesto propagandistico del Rassemblement National, ex Front National. Veniva esibito ieri al grande meeting di fine estate del partito a Fréjus, sulla Costa azzurra. Intanto, dal palco la zarina dell’estrema destra tuonava: «Con noi al governo, l’Aquarius non accosterebbe più in Francia». Insomma, facciamo come il mio amico Matteo, che fa la guerra a quella nave. A Parigi lo chiamano già l’«effetto Salvini»: il successo del leader della Lega Nord viene come un’onda a sostenere la Le Pen, che teoricamente sarebbe in crisi. I suoi deputati europei sono accusati di aver utilizzato fondi di Bruxelles per pagare gli assistenti parlamentari, in realtà impiegati poi illegalmente in Francia. La truffa contestata potrebbe totalizzare 7 milioni. E la giustizia francese vuole congelarne per ora due, sottratti a casse già esangui. Non solo: in vista delle europee del maggio prossimo, la destra moderata dei Repubblicani rigetta qualsiasi alleanza. Non importa: Sarebbe grazie all’effetto Salvini, che ieri la Le Pen ha cavalcato, puntando il dito contro «la folle politica “immigrazionista” dell’Ue». Nel lungo discorso, Le Pen tesse l’elogio dell’ami italien che batte i pugni sul tavolo nelle riunioni coi ministri europei, si è ribellato alla «sommersione silenziosa» provocata dall’immigrazione, è riuscito a «diminuire le richieste di asilo del 60%», «difendendo come noi la sua nazione e la nostra civiltà». L’Italia, qui, fa sognare.

Economia e Finanza

Pensioni, in arrivo altri tagli per finanziare «quota 100». In attesa della manovra la spesa previdenziale continua ad aumentare. Nelle modifiche che il governo gialloverde sta studiando in vista della prossima manovra sotto la spinta della Lega riaffiora il sistema della “quote”, dieci anni dopo la loro “prima volta” nel panorama previdenziale italiano. Ieri è stata una giornata caratterizzata dal botta e risposta tra i vicepremier Salvini e Di Maio su reddito di cittadinanza e flat tax, ma gli sforzi del ministero dell’Economia sono ancora concentrati sulle coperture. Ad esempio quelle necessarie a finanziare la riforma delle pensioni firmata da Elsa Fornero e Mario Monti. La Lega punta molto sulla proposta che comprende quota 100 (dalla somma degli anni di contribuzione e dell’età) e il limite per il ritiro a 62 anni. Ma i costi sono enormi. Per abbassare l’età pensionabile degli italiani a sessantadue anni i soldi non ci sono. Finanziare l’ormai famosa «quota cento», costerebbe quasi metà dell’ammontare della manovra per il 2019. Ecco perché il governo sta cercando una soluzione che permetta di far pagare una parte dei costi alle aziende. «Stiamo lavorando sui fondi di solidarietà ed esubero che potrebbero dare una mano a tutto il sistema», dice Alberto Brambilla, colui al quale Salvini ha dato l’incarico di studiare una soluzione. Il modello è quello già utilizzato per la ristrutturazione del settore bancario. Se un’impresa vuole mandare in pensione un lavoratore prima che abbia maturato i requisiti previsti dalla legge, firma un accordo – individuale o collettivo – e paga il prepensionamento attraverso fondi alimentati anche da un contributo obbligatorio del lavoratore in busta paga. Non si tratta comunque di soluzioni a costo zero per lo Stato: nel caso delle banche lo Stato ha contribuito complessivamente per circa un miliardo. C’è di più: sono pochissimi i settori nei quali il fondo esuberi è in grado di farsi carico dell’uscita di migliaia di persone. Oggi i leader della maggioranza e i ministri economici si riuniranno per fare il punto.

La trincea di Tria: niente nuovo debito e il deficit non salirà oltre l’1,6%. Ok alla flat tax «ma non deve aiutare i ricchi». Sì al reddito di cittadinanza purché «non sia fatto per stare a casa e guardare la televisione». Veti incrociati tra Di Maio e Salvini in vista del vertice di governo, fissato per oggi. Il vicepremier grillino mette i suoi paletti alla misura fiscale che la Lega vorrebbe, ma che di fatto ha già rimandato al 2020. Quello leghista dà corpo alla diffidenza dell’elettorato del Nord sul rischio di un’ondata di assistenzialismo targata 5 Stelle. Sul tavolo c’è la legge di bilancio: tra i 28 e i 30 miliardi di euro – vorrebbero i due partiti di governo – da distribuire per gli interventi che ciascuno di loro promuove. Più passano i giorni, più aumenta dentro e attorno ai palazzi romani la sensazione che il programma di governo e i suoi garanti stiano entrando in un imbuto. Da oggi ai prossimi giorni qualcosa riuscirà a sfociare verso l’esterno senza incontrare troppi ostacoli, altri elementi resteranno bloccati o per far quadrare i conti dovranno ammontare in totale ad almeno 15 miliardi di euro, difficile ottenerli solo con tagli di spesa ai ministeri verranno triturati al passaggio. Di sicuro sta formandosi un ingorgo dove qualcuna fra le promesse e le proposte anche più recenti e qualche esponente del governo o della maggioranza avrà la peggio. La legge di bilancio non è mai stata un «pasto gratis» e anche questa sta per presentare il conto: non sarà il più facile dei momenti, per i protagonisti del governo gialloverde. Giovanni Tria, il ministro dell’Economia senza affiliazione di partito, è attestato su un obiettivo solo apparentemente semplice però chiaro: il deficit delle amministrazioni pubbliche per il 2019 può raddoppiare rispetto agli impegni ereditati dal suo predecessore, ma non di più. Non ci sarà finanziamento delle misure promesse da Lega e M5S generando ulteriore debito. Quando nei prossimi giorni si dovranno scrivere le grandi linee di programma nella «nota di aggiornamento» al Documento di economia e finanza il deficit per il 2019 dovrà essere all’1,6%.