di CLAUDIO D’AQUINO
Un Paese si unisce prima di tutto con le ferrovie. E pare che l’Italia se lo è dimenticato, facendo calare sul Mezzogiorno il gelo siderale di venti anni di solitudine. Davanti ai numeri del divario che anche quest’anno sciorina la Svimez, davanti alle asimmetrie Nord/Sud nei trasferimenti statali dovute all’impegno di rispettare le politiche di austerity, i migliori esponenti del Sud che vale dovrebbero fare squadra, essere compatti, condividere la missione di venire fuori dalla ghettizzazione con spirito unitivo. Mettendo da parte, per i prossimi venti anni, polemiche e contrapposizioni. Se nel Sud non ci tiriamo su con le nostre braccia e gambe, infatti, è anche perché abbiamo sempre qualcuno che entra a gamba tesa per interdire la manovra. E’ la vecchia storia dei “polli di Renzo”, certo, che nello spazio angusto si beccano fra loro. Ma è una storia che nel Mezzogiorno è diventata una piaga che getta pus.
Perciò vorremmo non leggere, almeno per i prossimi venti anni, articoli come quello che il professor Mariano D’Antonio, autorevole economista napoletano, ha inviato alle pagine locali di Repubblica giovedì 30 ottobre.
L’articolo si intitola “La memoria corta dei politici del Sud” ed è un tignoso j’accuse rivolto ai “cosiddetti meridionalisti”, dice il professore, che discettano sui divari del Sud e un giorno sì e l’altro pure chiedono che cosa stia facendo il governo Renzi per il Mezzogiorno. Cosa hanno fatto costoro per il Sud, specie quelli che “hanno avuto responsabilità di governo della cosa pubblica nel Mezzogiorno…”?
Con chi ce l’ha il professor D’Antonio non è da decifrare. I “meridionalisti di professione” li chiama per nome. E li mette uno per uno dietro la lavagna. Marco Esposito, puntiglioso redattore del Mattino, è stato assessore di De Magistris. Bacchettate a Paolo Savona e Giorgio La Malfa: sono pensionati e “si permettono di dettare l’agenda come fossero ancora ministri”. La peggio punizione – in ginocchio con il granone sotto – è per Isaia Sales, “già parlamentare e sottosegretario del primo governo Prodi”. E giù randellate…
Peccato. Il j’accuse di D’Antonio non si conclude con la trave nell’occhio suo. Perché D’Antonio omette di ricordare (si può dire così?) che egli pure è stato parte di questa stessa classe dirigente per circa tre anni, quando è stato assessore campano al Bilancio (al Bilancio, non allo Sport) dal 2008 al 2010, quando governatore della Regione era Antonio Bassolino. Un periodo in cui, stando a quanto apprendiamo da numerosi assessori attuali, si consumavano gli sperperi di una gestione sanitaria per la quale la stessa Regione ha dovuto subire di recente una cura da cavallo. Anzi, se la memoria non inganna, per amor del vero dovremmo (dovrebbe) ricordare che è un “già” assessore anche al Comune, epoca Valenzi.
Nel pezzo di D’Antonio c’era poi una domanda nella domanda, che si è persa per strada. “Che cosa faremo nei prossimi tempi?”. Alla quale il professore non dedica neppure un rigo. Ha perso così una occasione per fornirci la sua ricetta. Che poi sarebbe stata non solo la più opportuna, ma anche la più gradita.
Compito al quale invece non si è sottratto invece il “pensionato Paolo Savona”. Che ne facciamo di questo Mezzogiorno? Savona lo ha spiegato sul Mattino per due volte. La prima per porre la questione, la seconda per entrare nel merito di un possibile programma di lavoro. C’è da rimboccare le maniche, in sostanza, se vogliamo dare una prospettiva al nostro territorio. Come? Suscitando un Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno. Un movimento civile che affermi gli interessi del Sud fino al punto che, se i partiti non sapranno intercettarne la domanda, non è esclusa possa tradursi esso stesso in una formazione politica.
Savona, ancorché pensionato, ha mostrato saggezza nella determinazione a spostare altrove (più avanti) il focus di un dibattito tediosamente appeso al pendolo di una trita questione: è nato prima l’uovo o la gallina? Cioè è nata prima la depredazione del Mezzogiorno – continua, sistematica, reiterata – e delle sue risorse, come sostengono gli intellettuali “vittimisti”? Oppure la gallina delle classi dirigenti del Sud incapaci di uscire dalla spirale dell’assistenzialismo diffuso, con cui si dissanguano le istituzioni territoriali e si amministra il consenso elettorale, come sostengono gli intellettuali “ascari”.
E’ lecito dire basta? E’ permesso affermare che non e possiamo più di un battibecco da polli di Renzo? E’ consentito suggerire di mettere da parte il fegato e chiamare a rapporto cuore e testa quando sono in gioco gli interessi della comunità di cui facciamo tutti parte, senza buttarla sempre in caciara come a una riunione di condominio?
Ecco, avremmo gradito che un contributo in questa direzione fosse venuto anche da D’Antonio.
Dall’alto della sua cattedra, benché in età di pensione (è nato nel 1938), ci aspettiamo di sapere cosa fare nei prossimi tempi. Abbiamo il fondato sospetto che il segreto dell’inarrivabile allungo del Nord e del suo stabile posizionamento in avanti, pur tra le difficoltà che conosciamo, sia nella capacità di fare due più due quattro più due sei. Una predisposizione addizionale, che noi meridionali non conosciamo. E se conosciamo, non dimostriamo. Non gli imprenditori, non i professionisti, non gli accademici. Neppure in riunioni di condominio. E dal omento che questo al Nord non accade (o accade molto meno), il Nord si trova sempre un passo avanti grazie alla sistematica alleanza di società civile, politica e istituzioni. Alleanza che si esercita, ovviamente, anzitutto quando bisogna togliere risorse a un altro territorio per rinfrancare il Nord. Insomma, morale della favola, qui al Sud non continuiamo così perché ci facciamo del male da soli. Ma attenzione: stavolta invece che i polli di Renzo, finiamo col fare i polli di Renzi.