di CLAUDIO D’AQUINO
Mal comune è un pessimo modo, insano e distorto, per godere. Col mal comune non si è mai costruito niente, tutt’al più si riesce a dare un emolliente al risentimento. Se dal profondo Sud oggi parliamo dell’alluvione di Genova, non è quindi per speculare sulle altrui disgrazie (della serie: oddio la natura si incarica di confermare che, oltre al fuoco, ci sono evidentemente altri modi per lavarsi).
Il mal comune italiano è un malcostume. Tiene unita la nazione dalle Alpi a Lampedusa. L’alluvione con il “richiamo” di Genova – stesso luogo, stessa scena, tre anni dopo, è paradossale. Un impiccio imbastito coi ricorsi e i controricorsi al Tar, che hanno generato la paralisi dei lavori di cui il territorio aveva urgente bisogno per non incorrere in un tragico replay. Così Genova (non Atrani, Sarno o Bracigliano) è caduta in un gorgo di carte bollate, prima che di mota e fango. A Genova (non a Napoli, Reggio Calabria o Palermo) la discesa in campo dell’Italia delle carte, dei timbri, ha bloccato cantieri per i quali erano già stati stanziati, circa tre anni fa, la bellezza di 36 milioni di euro.
Che cosa dice Genova a noi che siamo in fondo alla Campania?
Nella poco invidiabile classifica delle sciagure naturali, la regione occupa i primi posti. Lo rammenta il Mattino del 12 ottobre. Tra frane, alluvioni e terremoti, tra Garigliano e Bussento non ci siamo fatti mancare niente. E difatti a prima vista e ad audio zero, quelle di Genova sembrano – possono sembrare – immagini di repertorio raccolte a Quindici o Bracigliano. Lo smottamento di Atrani, alle pendici di una Costa d’Amalfi che si sbriciola senza rimedio, ebbe un analogo story board. Macchine trascinate giù dalla furia della melma, si accatastano scompostamente in un collo di imbuto. Solo che non siamo in uno di quei borghi meridionali scempiati dalla devastazione urbanistica.
La lezione di Genova per noi è duplice.
Prima. Calabria e Basilicata hanno, secondo Legambiente, un indice di dissesto idrogeologico pari al 100 per cento del totale regionale. Vuol dire che tutti i Comuni delle rispettive regioni sono esposti al rischio. Ma c’è una sorpresa: il 100% è il medesimo indice della Provincia autonoma di Trento e dell’Umbria. E la esecrata Campania? E’ al 92%. Mal comune, dicevamo. E del resto, ci sarà pure un motivo perché Italo Calvino ha ambientato “La speculazione edilizia” nella sua Sanremo invece che a Ercolano o a Tropea? Insomma, ci sono tanti divari che tengono a distanza Nord e Sud. Ma il rischio idrogeologico causato dalla malversazione che ha subito il territorio è un fattore che vede la nazione veramente unita al solito destino.
Seconda lezione. I giovani. Quelli di Napoli, va senza dire, sono irrecuperabili. Vanno tutti in motorino senza casco, che ne parliamo a fare.
E quelli di Genova? Ma li avete visti? Il giorno dopo l’alluvione hanno lasciato a casa ipad, play station, gel e creme anticellulite e, messa addosso la prima tuta disponibile, si sono precipitati per strada vanga in mano, a portare sostegno ai pompieri. Un po’ scapigliati per lo stress da lavoro, gli schizzi sul volto e tra i capelli, gli angeli senza le ali continuano senza sosta a spalare la mota. E fino a quando andranno avanti? Beh, fino a che riusciranno a stare in piedi.
E così va in secondo piano la realtà vera. Quella dei ricorsi incrociati e, anche, quella della prevenzione sbagliata, perché sbagliata è stata la valutazione dell’impatto del maltempo sulla città. Una retorica che di cui non riusciamo a fare a meno, da Istituto Luce o da velina del Minculpop, che risale all’alluvione di Firenze del 69 e si rinnova a ogni acqua alta a piazza San Marco. Nelle strade squassate del capoluogo ligure, viene in scena per la prima volta la gioventù renziana, i “ragazzi del fare”, i boyscout versione 2.0.