C’era da aspettarselo. Se Ernesto Galli della Loggia ha molato le lenti con cui finora guardava e giudicava il Sud, la cosa non poteva passare inosservata. Perciò dopo la pubblicazione di “Il governo e il Sud che non c’è. Il Mezzogiorno dimenticato e lo scatto necessario” (Corriere della sera del 21 dicembre) c’era da aspettarselo che alle trombe di via Solferino rispondessero le campane del gruppo L’Espresso. E’ sceso in campo Scalfari e ha detto quel che da quel pulpito ha sempre ripetuto Giorgio Bocca. A Scalfari ha replicato da par suo Alessandro Barbano, direttore del Mattino: i pregiudizi di Scalfari sul Sud sono un campionario ampio, benché non originale: vanno dalla razza alla storia, passando per la morale…).

Quello che non potevamo prevedere è lo slittamento della colpa a cui abbiamo assistito nei giorni seguenti. Nel mirino non ci sono solo e non ci sono tanto i meridionali come etnia (sì, di etnia ha parlato Scalfari), alla gogna sono adesso le Regioni meridionali. Che ora si prendono in carico tutta la croce. Sei il Sud è uscito dalla agenda dei governi, non è responsabilità dei governi, ma dell’ordinamento regionale che ne ha completato la rovina. “Il Mezzogiorno – scrive Galli della Loggia dando il la a tutta quanta l’orchestra – è sparito: il suo posto è stato preso dalle Regioni meridionali. Ormai è un mantra. Che funziona al contrario (ma proprio l’esatto contrario) di quello che abbiamo sentito per venti anni dal 1992 in poi, quando tutti i commenti dei più paludati opinionisti individuarono nel “federalismo” la panacea dei mali del Paese. Chi ha già qualche capello bianco ricorderà lo slogan caro alla Lega di Gianfranco Miglio: “Ognuno padrone in casa propria”. Fu tale la grancassa, che il centrosinistra allora guidato da d’Alema si piegò alla modifica del titolo quinto della Costituzione. E amen. Ora le parti sono invertite e il ribaltamento è così rapido da suscitare molti dubbi e qualche sospetto.

Scalfari ha una certa, venerabile età e si vede. Nel suo articolo definisce la questione settentrionale come prodotto storico risalente al tempo in cui al Nord esistevano vaste sacche di povertà strutturale, “tra le quali predominava allora il Veneto”. La fa risalire agli anni Settanta, quando le regioni che compongono la Padania composero (vedi quando le regioni sono virtuose?) “quella specie di triangolo industriale che fu il nord da Treviso al sud di Ferrara, sconfinando poi con Ancona e Pescara”. Risalirebbe pertanto alla nascita dei distretti, cioè dal “fiorire della piccola e piccolissima impresa che nasce dalla espansione delle grandi imprese del Nord…”. Una caratteristica distintiva (etnica?) che poi, in tempi duri di congiuntura negativa e di crisi (notare la differenza con il nefasto Sud) “è stata fatta propria dalla politica che l’ha trasformata in una vera questione nazionale…”. Siamo al Nord, persino la politica è virtuosa…

Nulla di più falso. Perché il settentrione diventa una “questione” non prima della nascita della seconda repubblica. Cioè dalla metà degli anni Novanta. Un passaggio terribile della politica e del costume italiano, che sancisce la rottura del patto nazionale e l’affermarsi di un rivendicazionismo egoistico che non ha avuto paragoni in Europa. E meno che mai si riscontra nella Germania che scommette sulla riunificazione con la ex DDR. Lì non nasce una “questione federale” per sancire l’abbandono a se stessi dei Lander orientali. Anzi.

Ha ragione quindi Alessandro Barbano, il direttore del Mattino, quando nel suo commento del 28 dicembre (“Il Mezzogiorno e gli ascari del pregiudizio”) afferma che “Scalfari e Galli della Loggia il Mezzogiorno lo incontrano solo in cartolina o nei salotti di qualche premio letterario e/o mondano”. Scalfari e Galli della Loggia conoscono Napoli e il Sud molto, molto meno di quei giornalisti che lasciavano basito Domenico Rea. Quelli che scendevano a Napoli da una città del Nord e con un paio di giorni trascorsi in una redazione a spulciare articoli, pretendevano di spiegare Napoli meglio di lui che, napoletano da diverse generazioni, non temeva di confessarlo: non l’aveva mai ben capita, forse aveva persino rinunciato a capirla.

Di Redazione

Claudio D'Aquino, napoletano, giornalista e comunicatore di impresa