Di CLAUDIO D’AQUINO
Gli appelli al Mezzogiorno affinché si svegli, o si risvegli, affinché impari a fare da solo demolendo coi fatti pregiudizi vecchi e nuovi, si fanno sempre più frequenti. Ma si risolvono in retorica perché questo movimento subliminale non trova sbocco politico. Il Sud che si dà coraggio, che mal si adatta alla rassegnazione e vuole scuotersi dall’apatia, non entra ancora appieno nella tematizzazione dei media nazionali. E tuttavia comincia a essere un fenomeno diffuso nell’opinione corrente dei meridionali: basta frequentare un po’ i social network per averne riscontro diretto. Da Napoli a Matera, dalla Puglia alla Sicilia, tra associazioni, comitati, coordinamenti e fondazioni, il rimbalzo delle cose buone che si tentano e delle cose antiche che si riscoprono è, a dir poco, commovente. Poi però se qualcuno azzarda ad aprire il capitolo del “riscatto” che deve in qualche modo far seguito alla vergogna e all’orgoglio, qualcosa non torna. Se qualcuno pone il problema di come dare una politica e una strategia al moto di riscoperta identitaria di chi sembra intenzionato a prendere in mano il proprio destino, fioccano le critiche. I se e i ma dal dubitativo sfociano in reprimende asseverative. Anzitutto da parte della sinistra “progressista”, non per forza radical chic, ma sempre “elitaria”, aristocratica, illuminista, che non sa né vuole interpretare i Mezzogiorni in marcia di un Sud divenuto ormai fenomeno proteiforme. L’intellettuale di massa che vota sinistra ha come mito fondativo il risorgimento e la resistenza. Va in panico quando qualcuno azzarda a parlare di Mezzogiorno pronto a darsi un assetto istituzionale nuovo (macroregione) o ad abbracciare la prospettiva di una responsabile e autonoma linea politica neo-meridionalista. Ecco, allora si spiega perché il Sud non dispone, ad oggi, di un pensiero strutturato su cosa può e vuole fare per il proprio destino. Solleva un muro di gomma. Legge in questo fermento, che è postmoderno, propositi neo-borbonici di chi aspira alla nascita di un partito del Sud fotocopia della Lega Nord. E’ come atterrita della prospettiva di consegnare il Sud al traguardo di un referendum come in Scozia e in Catalogna. Così i “venti anni di solitudine” imposti al Sud dai governi a trazione leghista, si prolungano oggi nei tempi supplementari. Da Monti a Letta, da Letta a Renzi, la sinistra, non meno che la destra, ha abbandonato la “questione meridionale”, considerata un ferrovecchio come i telefoni a gettone.
Nelle ultime pagine di un libro non abbastanza meditato, “Un Paese troppo lungo”, già nel 2009 si sosteneva viceversa la necessità di un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. Il suo autore, Giorgio Ruffolo, già deputato socialista e ministro della Repubblica, poi europarlamentare del Pds, era e resta espressione del migliore riformismo italiano del Novecento. Altro che rigurgito neo-borbonico, la sua idea di Paese si ispirava al federalismo unitario e si richiamava a Salvemini e a Guido Dorso: un grande patto fra il Nord e il Sud, posti sullo stesso piano autonomista.
Nelle sue pagine trova posto anche una precisa indicazione programmatica, la quale coincide – e non è un caso – con la proposta di un piano per la rigenerazione urbanistica delle metropoli del Mezzogiorno, che oggi è centrale nelle ricetta a marchio Svimez. “Il problema fondamentale del Mezzogiorno – scriveva Ruffolo, in tempi non sospetti – è costituito dalle sue città degradate e congestionate, di un territorio abbandonato a se stesso, il cui controllo è passato nelle mani dei governi criminali, in costante conflitto tra loro”. Ieri come oggi, la riorganizzazione urbanistica delle grandi città è presupposto “per liberare il territorio dalle incrostazioni criminali e sradicare dal Mezzogiorno l’escrescenza tumorale della mafia”.
Se esiste o esisterà mai nel Mezzogiorno una leva di classe dirigente che abbia a cuore la propria comunità, prima e al di sopra dell’interesse a costruire carriere tra cooptazioni e compromessi, è questa la sfida che dovrebbe abbracciare. Mettere in campo un nuovo soggetto istituzionale come lo intendeva Ruffolo: uno Stato federale del Mezzogiorno, con un governo autonomo del Mezzogiorno, saldamente ancorato a una costituzione nazionale autenticamente federalista. “Si tratta – spiega al dunque l’ex ministro dell’Ambiente – di trascendere il regionalismo, che ha frammentato la questione meridionale, favorendo la formazione di clientele locali e perdendo di vista l’unità del problema, per costituire un governo del Mezzogiorno come soggetto politico unitario”. Altro che partito del Sud. Altro che sudismo “autistico e deteriore”.