di Marcello Donativi *
È un sabato di luglio, quando scendo alla stazione di Formia. Tante volte ho visto Gaeta dal finestrino, senza fermarmi: e sembrava tale e quale alla figura del libro di storia delle scuole medie. Su quei manuali all’avvenimento erano dedicate non più di tre righe; si parlava sbrigativamente di un assedio vittorioso da parte dell’esercito italiano, ultimo atto di una gloriosa epopea chiamata Risorgimento. Però non mancava mai la figura di un curioso promontorio dalla forma di un cumulo di farina, con una fortezza ai piedi; caratteristico il dettaglio di una grossa esplosione. A noi ragazzini quell’assedio era raccontato come una sorta di formalità, un cartellino da timbrare perché fosse portata a compimento l’unità e la redenzione della Patria; e in fondo a rinchiudersi lì dentro era un re tiranno e anche un po’ idiota, meritevole di non altro che l’esilio. Poco ci fermavamo a chiederci se e quante persone fossero morte in quell’episodio; né alcuno veniva a raccontarci che a lasciare questo mondo fossero stati non solo tiranni e soldati di tiranni, ma anche bambini della nostra età. Sepolti sotto le bombe degli “italiani”.
Dal piazzale di Formia un autobus porta a Gaeta. A bordo più che altro giovani diretti alla spiaggia, e qualche anziano. Gaeta non è posto da turismo. E infatti di quell’episodio non rimane oggi quasi nulla. Non una targa, non un cartello che possa far pensare a un luogo storico. Soltanto un paio di ristoranti cercano di sfruttare il passato: insegne come “La taverna dei Borboni” o “Osteria di Federico”. Per il resto il paese è un placido posto di mare, con le navi ancorate nel porto e l’acqua abbastanza pulita da consentire di nuotare tra l’una e l’altra. Eppure, spesso tra gli edifìci si intravede qualche casa diroccata; si incontrano muri che non finiscono, arcate solitarie in mezzo alle erbacce, resti di costruzioni che pochi si chiedono perché siano andate incontro a una tale rovina. Addentrandosi per i vicoli del colle, molte facciate sono tuttora bucherellate qua e là nell’intonaco. Strana forma di erosione, inspiegabile secondo l’azione del vento, molto di più secondo l’esplosione di uno shrapnel. Nella piazza centrale due lapidi su opposti palazzi ne specificano i costruttori: “questi edifìci furono cretti dal Re tal dei tali della dinastia Borbone nell’anno tale ctc. ctc”. Leggo e penso: non sono edifici’, sono casematte.
Ci si rifugiava durante i bombardamenti. Dopo un’ora a vagare senza costrutto, decido di fare ritorno. Aspetto l’autobus ai giardinetti di fronte al mare. Nel mezzo, un monumento contornato da mitragliatrici d’epoca ricorda i caduti nella Prima Guerra Mondiale. Caduti per la Patria che nacque in questo luogo nel febbraio del 1861; anche se i più preferiscono pensare che sia nata più a sud e qualche mese prima, a Teano. D’altra parte, chi dovrebbe ricordare quell’episodio? I testimoni sono morti da più di cento anni. Parecchi fra loro, dopo l’Unità d’Italia, continuarono per anni a raccontare la loro storia, in mezzo a mille difficoltà, censure, persecuzioni poliziesche. In tanti scelsero la via dell’esilio; gli altri, i più bisognosi, si piegarono al nuovo status quo, in molti si arruolarono nel nuovo esercito italiano; ma spesso senza rinunciare a scrivere sul biglietto da visita: reduce da Gaeta. Con l’orgoglio di chi ha compiuto un’impresa eroica, sventurata ma tale da rimanere negli annali.
E invece no. Il tempo ha lentamente coperto la portata degli avvenimenti, la retorica ha stabilizzato quale dovesse essere la versione dei fatti. Come se non bastasse, è arrivato il fascismo a esasperare ancor di più il Mito della Nazione. Dopo la guerra, tanto peggio: la nuova Italia repubblicana aveva bisogno della leggenda di Garibaldi ancor più di quanto non ne avesse lo stesso fascismo.
E così sono stati istituzionalizzati una serie di concetti: il Regno delle Due Sicilie era un’abominevole dittatura; re Ferdinando II era un vampiro, suo figlio Francesco un imbecille; Vittorio Emanuele II al contrario un galantuomo; i garibaldini erano prodi, leali e coraggiosi; i soldati napoletani codardi e debosciati; e tutti quelli che provarono opporsi all’unica ciano retrogradi reazionari o poveri ignoranti sobillati dalla propaganda clericale. Ma noi, oggi, possiamo dire di avere realmente guadagnato da questa cloroformizzazionc della storia nazionale? Quanto ci conviene continuare a ignorare la voce di quanti all’epoca non ne volevano sapere dell’unificazione italiana?
*prefazione a “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta” di Giuseppe Buttà