saverio Masi

di Adriana Stazio

Secondo quanto riportato da alcuni organi di stampa, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione avrebbe rigettato il ricorso presentato dall’avvocato Giorgio Carta, confermando la condanna del maresciallo Saverio Masi a sei mesi con sospensione condizionale della pena per falso materiale e tentata truffa.

Il maresciallo Saverio Masi, oggi caposcorta del pm Nino Di Matteo, era finito sotto processo per aver chiesto nel 2008 l’annullamento di una contravvenzione di appena 106 euro contratta con un’auto privata mentre, nell’ambito delle sue indagini, si recava ad incontrare un confidente. Masi ne chiese l’annullamento, secondo consuetudine, ma i superiori non confermarono, dichiarando di non aver autorizzato l’uso dell’auto privata in servizio, e lo denunciarono per falso. In primo grado il maresciallo fu condannato per falso materiale, falso ideologico e tentata truffa. Nell’ottobre 2013 i giudici della Corte d’Appello di Palermo lo assolsero dall’accusa di falso ideologico stabilendo che effettivamente Masi era in servizio quando prese la multa, ma confermarono la condanna per i restanti capi di imputazione. Fu però un giudizio condizionato dal fatto che la stessa Corte aveva rigettato la richiesta di riapertura dell’istruzione dibattimentale presentata dai nuovi legali del maresciallo che avrebbe consentito l’ammissione di nuove prove a discarico. Ecco perché l’avvocato Carta preannunciò subito ricorso in Cassazione.

Appare paradossale che il maresciallo sia stato denunciato per aver cercato di farsi togliere impropriamente una contravvenzione di appena 106 euro, mentre sono svariate migliaia di euro i soldi che il maresciallo Masi ha rimesso tra straordinari non richiesti e spese di cui avrebbe avuto diritto al rimborso, sostenute di tasca sua.

Questa vicenda giudiziaria s’intreccia con quella della trattativa Stato-mafia: Masi ha denunciato alla magistratura che, mentre era in servizio al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Palermo, sarebbe stato ostacolato nella cattura prima di Bernardo Provenzano e poi di Matteo Messina Denaro dai suoi stessi superiori. I rapporti erano quindi ai ferri corti quando gli stessi lo denunciarono per falso, causandone il trasferimento dal Nucleo Investigativo al reparto scorte. Le denunce sono tuttora oggetto d’indagini da parte della procura di Palermo e fanno del maresciallo Masi anche un testimone di vicende che s’inseriscono nell’ambito più vasto delle indagini sulla trattativa. Difatti secondo l’impianto accusatorio del processo sulla trattativa, le coperture istituzionali alla latitanza di Bernardo Provenzano sarebbero proprio dovute a quel patto siglato nel 1992, con intermediario Vito Ciancimino: secondo quanto raccontato dal figlio Massimo Ciancimino, testimone oculare di quelle vicende e teste chiave dell’accusa, dopo la strage di via D’Amelio si decise la cattura di Riina il cui posto a capo di Cosa Nostra sarebbe stato preso dal più ragionevole e moderato Provenzano che avrebbe garantito il ritorno alla strategia della sommersione e ad una mafia non contrapposta allo Stato.

Inoltre Saverio Masi è stato ascoltato come teste al processo Mori per la mancata cattura di Provenzano e sarà ascoltato nel processo sulla trattativa perché la raccolse le confidenze dell’allora capitano Angeli che aveva condotto la perquisizione nel febbraio 2005 a casa di Massimo Ciancimino in cui non era stato sequestrato il papello per cui le sue dichiarazioni costituiscono un importante riscontro alle dichiarazioni rese sul tema dallo stesso Ciancimino.

In questo modo il maresciallo Masi è stato allontanato dal suo lavoro dove dava fastidio per la sua ostinazione di voler compiere il proprio dovere con troppa solerzia. Ora rischia la destituzione dall’Arma, ma sono ormai nove anni che è stato fermato, che non gli è più consentito di proseguire le sue indagini per la cattura dei latitanti e in particolare di Matteo Messina Denaro.

La sentenza sarà utile anche per cercare di delegittimarlo come teste, così come in precedenza è stato fatto con il colonnello Michele Riccio, dalle cui dichiarazioni era partito il processo Mori e come sta succedendo a Massimo Ciancimino, superteste della trattiva, subissato di processi per calunnia e altro. Allo stesso modo il maresciallo Masi si trova oggi a rispondere per denunce e processi per diffamazione ai danni dei suoi superiori. Addirittura insieme a lui e a numerosi giornalisti che avevano raccontato il caso, è stato rinviato a giudizio anche il suo legale, l’avvocato Giorgio Carta che, così come il suo assistito, prosegue nella sua battaglia di legalità e giustizia non lasciandosi intimidire. Lo stesso Nino Di Matteo, nel ribadire la sua stima e la sua fiducia nel maresciallo Masi, aveva dichiarato: “Personalmente mi sembra singolare che mentre, come è noto, a Palermo si cerca di verificare la fondatezza delle sue denunce, un’altra autorità giudiziaria incrimini per diffamazione gli autori delle suddette denunce e perfino i difensori e i giornalisti che la hanno rese note”.

in questo modo si ottiene anche l’effetto di un monito ben preciso, “colpirne uno per educarne cento”: il segnale arriva chiaro a chiunque, dentro e fuori le istituzioni, sappia qualcosa e voglia spezzare il silenzio, raccontando tutto alla magistratura. Fino a qualche anno fa i magistrati impegnati in queste difficili indagini lanciavano appelli “chi sa parli”. E sembrava davvero essersi aperto un momento magico per la verità spezzatosi appena si è visto a cosa andavano incontro coloro che quella verità avevano cercato di raccontare.

Venerdì, mentre la Suprema Corte decideva il suo destino, il maresciallo Masi era come sempre a fare il suo dovere, scortando e garantendo la sicurezza del magistrato più a rischio d’Italia, condannato a morte da Riina, perché ha toccato gli stessi fili dell’alta tensione che hanno toccato testimoni come Ciancimino e come lo stesso Masi.