di SIMONA D’ALBORA
Rimbaud, Tolstoj Caravaggio, Cesare Pavese, Virginia Wolf, Kafka, Keats, Hopper, Walser, Joyce ma anche i Radioheads e Bill Evans. Fabrizio Coscia nel suo ultimo libro, Soli eravamo, racconta episodi della loro vita rivelando anche se stesso. Nessun filtro per l’io narrante che si spoglia della pedanteria dei saggisti e del metodo antologico, per raccontare l’arte attraverso la vita e la vita attraverso l’arte.
Soli eravamo è un bellissimo viaggio alla scoperta degli aspetti di vita quotidiana con i quali anche lo stesso autore si confronta. Un romanzo che non è romanzo, un saggio che non è saggio, ma piuttosto un libro che al suo interno racchiude più generi e che parla contemporaneamente di libri, musica, quadri e di coloro che hanno scritto, composto e dipinto. Ogni capitolo, che racconta episodi di vita paralleli di due personaggi amati dallo stesso autore, racconta esperienze e aspetti della vita che potrebbero riguardare chiunque. Edito da Ad est dell’equatore, Soli eravamo “ruba” il titolo all’ultimo verso di una terzina del V Canto dell’Inferno della Divina Commedia di Dante. Quel verso che da il la al racconto dell’amore tragico tra Paolo e Francesca
Abbiamo chiesto all’autore il perché di questo titolo?
“In realtà il titolo stesso è preso da uno dei capitoli del libro. Proprio quello nel quale narro la storia della coppia di amanti più famosa e protagonista proprio del V canto dell’Inferno della Divina Commedia, Paolo e Francesca, parallelamente a quella di un’altra coppia di amanti finita tragicamente, Fabrizio Carafa e Maria d’Avalos. Ma è la stessa storia del ritrovamento dei primi 5 canti della Divina Commedia ad essere interessante. Fu la moglie stessa a trovarli in un baule nella casa di Firenze, mentre lo stesso poeta era in esilio”
Come nasce l’idea del libro?
“In realtà è un libro che non pensavo nemmeno di pubblicare, la sua forma, infatti, non rientra in alcun genere, ma racchiude una moltitudine di generi insieme, pensavo di avere scritto una cosa molto personale e invece poi mi sono ritrovato a pubblicarlo e proprio il fatto che non era scritto per la pubblicazione, ha fatto in modo che si sentisse il mio coinvolgimento attraverso l’io narrante. Ed è stato bello scoprire che proprio grazie al fatto che nel libro io sono me stesso, molti lettori vi si siano identificati. Per una volta il narratore si mostra così com’è e nel lettore si innesca un processo di identificazione. Ed è una specie di cavallo di Troia, perché una volta che ti conosce accetta senza riserve quello che tu scrivi, sa che può fidarsi.”
In ogni capitolo, si individua il fil rouge che lega gli episodi di vita paralleli dei due artisti, e che alla fine non è altro che un tema universale:
“Infatti, ogni capitolo parla della vita di due artisti in maniera parallela, episodi comuni non solo ai due artisti, ma in generale, c’è il capitolo dove narro la fuga da casa di Tolstoj, ormai 82 enne e malato e quella di Rimabaud in Africa che abbandona la poesia. Il capitolo sul suicidio di Virginia Wolf e quello di Cesare Pavese e ancora la fucilazione di Garcia Lorca e Isaak Babel. Ho cercato degli aspetti della vita degli artisti anche poco conosciuti, come quello di Kafka ormai malato che nel parco di Berlino incontra una bambina che piange perché ha perso la bambola, l’episodio è narrato da Dora Diamant, l’ultima fidanzata dello scrittore. Kafka decide di dire alla bambina che non ha perso la bambola ma che è andata via e che lui è il postino delle bambole e che ha una lettera per lei. Per venti giorni inizia una corrispondenza tra la bimba e la bambola e la cosa straordinaria è la serietà e l’impegno con il quale lo scrittore scrive le lettere delle bambole. Alla fine deve trovare un modo per rendere il distacco della bambina meno doloroso possibile e non si da pace fino a che non escogita uno stratagemma. Ed ecco che attraverso un racconto di vita di uno scrittore si affronta il tema dell’abbandono, un tema che ci riguarda tutti. In questo senso le lettere di Kafka hanno la funzione di colmare la perdita originaria della bambola”
Se le lettere di Kafka, che si finge postino delle bambole ha l’intento di colmare la perdita in questo senso Soli eravamo ha una funzione catartica?
“Sicuramente, l’intento della scrittura è quello di affrontare temi universali nel quale il lettore, ma nel mio caso anche l’io narrante si identifica nei racconti, proprio perché si è trovato ad affrontare situazioni analoghe. È una sorta di viaggio, che nel mio caso abbiamo fatto insieme, per sciogliere i nodi che ci legano. In fondo la scrittura, ma l’arte, in generale serve a compensare delle ferite e delle perdite che tutti noi abbiamo subito.”
Quindi l’arte si riflette nella vita?
“L’arte fissa degli archetipi esistenziali che si ripetono nella vita , prendiamo il racconto sulla fuga ad esempio, l’io narrante racconta il suo rapporto con la fuga, c’è un continuo scivolamento tra arte e vita”
“Lei ha dichiarato che ha scritto questo libro come se avesse voluto intonare un partecipato epicedio per un’idea di cultura che la ha accompagnata ma che vede allontanarsi sempre più dall’orizzonte formativo dei giovani, davvero i giovani, secondo lei si allontanano sempre più dalla cultura?”
“Per il lavoro che faccio, sto costatando personalmente quanto questa cultura, con la quale fino alla mia generazione ci siamo formati, si stia allontanando sempre più dalla quotidianità dai ragazzi, sembra una cultura ormai al tramonto. E non nascondo che ho iniziato a scrivere questo libro con l’intento di dimostrare quanto questi autori abbiano ancora tanto da dirci, quanto possano ancora fare parte della nostra vita. Il mio è un tentativo di riavvicinare i giovani e interessarli in maniera nuova all’arte in generale.”