Antonio Troise
Non eravamo un paese per giovani prima del Covid. E ancora di più rischiamo di esserlo durante e dopo la più grande e grave epidemia da quasi un secolo a questa parte. Il virus non ha colpito tutti allo stesso modo. Sul fronte della sanità a pagare il prezzo più alto sono stati gli anziani. Sul fronte dell’economia, invece, i più colpiti sono stati gli under 35, quelli che la statistica considera “giovani” e per i quali l’appuntamento con il mercato del lavoro rischia di trasformarsi in una chimera.
Nella solita montagna di dati diffusa dall’Istat, ce n’è uno che fotografa l’esatta dimensione di un dramma sociale che la politica tende a rimuovere: la crescita della disoccupazione giovanile oltre la soglia del 30%. Uno su tre dei nostri ragazzi, insomma, è a spasso. E la percentuale cresce notevolmente se ci spostiamo nel Sud o se consideriamo le donne.
Il Covid ha bruciato circa 500mila posti di lavoro. Ma anche qui non mancano le diseguaglianze: il blocco dei licenziamenti ha tutelato i contratti a tempo indeterminato ma ha falcidiato i rapporti di lavoro autonomo o a tempo determinato, due tipologie che, in molti casi, rappresentano per i giovani il lasciapassare più utilizzati per entrare nel mondo del lavoro.
E’ ovvio che la difesa della salute viene prima di ogni altra cosa. Ma nessuno è in grado di calcolare, oggi, l’effetto che la stretta anti-Covid avrà sull’economia nei prossimi anni. Nessuno sa, ad esempio, quanto influirà un anno e mezzo di didattica a distanza e di formazione per lo meno a singhiozzo sul futuro professionale (e, quindi, sulle opportunità di lavoro) della generazione che frequenta oggi le scuole primarie o quelle secondarie. Un problema enorme ma anche in questo caso, ineluttabilmente, rimosso dall’agenda della politica.
Finora, uno dei pochi strumenti messi in campo per aiutare anche i giovani disoccupati, il reddito di cittadinanza, ha mostrato tutti i suoi limiti. Su oltre un milione di persone con il sussidio, appena 200mila persone hanno trovato un’occupazione. Non si sa quanto stabile e, soprattutto, se per merito dei centri per l’impiego. I dati sulla disoccupazione giovanile, da questo punto di vista, sono un verdetto inappellabile.
Eppure, un Paese che dimentica i giovani o che trascura il loro enorme capitale non solo ha smesso di investire su sé stesso. Ma probabilmente rischia di bruciare anche il suo futuro.