di Michele Eugenio Di Carlo
Nel raggiungere Castellino del Biferno a Febbraio, borgo di cui mi considero ormai cittadino “virtuale” grazie all’accoglienza che del carissimo sindaco Enrico Fratangelo, non ho resistito – attraversato la bellissima e panoramica strada che emerge quasi per incanto dal lago di Guardialfiera – alla tentazione di raggiungere finalmente l’omonimo borgo dominato dalla bellissima e storica chiesa di Santa Maria Assunta.
Non che sia stato suggestionato da Vittorio Feltri, che nel tentativo di difendersi dall’accusa di nutrire sentimenti razzistici contro i meridionali – “meridionali inferiori” è stata l’ultima sua uscita infelice – cita spesso le sue bellissime estati passate da adolescente proprio a Guardialfiera.
In realtà a Guardialfiera ci sono giunto spinto emotivamente da ragioni culturali. Fino al momento della proclamazione del Regno d’Italia, poeti, scrittori e letterati erano accomunati da un sentimento condiviso: quello di un Italia unificata politicamente, geograficamente, culturalmente e linguisticamente dalle Alpi alla Sicilia. Certo, una tensione ideale prerogativa di una ristretta ed elitaria classe di politici e di intellettuali, mentre i diversi popoli d’Italia al massimo si sarebbero accontentati di pane e lavoro.
Giovanni Capecchi, docente di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia, esprime al meglio questa tensione culturale: «Da Foscolo a Leopardi (il Leopardi, soprattutto, delle canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante), da Manzoni al Giusti con i suoi “scherzi”, da Carducci al giovanissimo Verga (che si arruola volontario nella Guardia nazionale pubblica a proprie spese, tra il 1861 e il 1862, il romanzo storico-patriottico I carbonari della montagna), tutta la letteratura più significativa – insieme a moltissimi testi letterari d’occasione e ai romanzi storici di letterati-uomini politici come D’Azeglio – converge verso un unico obiettivo: quello di un’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare/di memorie, di sangue e di cor» (per dirla con Manzoni), di uno “stivale” non più frammentato e multicolore come il vestito di Arlecchino ma «tutto d’un pezzo e tutto d’un colore» (per dirla, invece, con Giusti[i]».
Paradossalmente, invece, con il risultato acquisito dell’Unità d’Italia, risolta con l’ingresso delle truppe italiane a Roma nel 1870 dopo quasi un decennio di guerra civile che vede barbaramente contrapposti l’Esercito Regio e i patrioti delle province dell’ex Regno delle Due Sicilie, «la letteratura, unita nell’Italia divisa, diviene divisa una volta raggiunta l’unificazione nazionale. Mentre, con il 1861, Nord e Sud della penisola si fondano in un’unica realtà politica, a partire dai primi decenni post-unitari (e sino ai nostri giorni) si assiste ad una “secessione” letteraria tra meridione e settentrione»[ii].
Ebbene, è proprio la “secessione letteraria”, frutto dell’amara delusione di chi aveva vissuto male lo stravolgimento di valori risorgimentali liberali e democratici risoltisi in turpi obiettivi di espansione territoriale con finalità coloniali dei Savoia, che mi ha condotto a Guardialfiera. Infatti, uno degli autori che possiamo di diritto inserire nel filone della “secessione letteraria”, Francesco Jovine, è nato a Guardialfiera nel 1902.
Francesco Jovine scrive nel 1942 Signora Ava, un romanzo ambientato nel paese natale e che rappresenta mirabilmente la visione dell’immutata civiltà contadina nel passaggio dai Borbone ai Savoia. Vi emerge netta la sensazione che nulla sia cambiato dopo la lunga e cruenta guerra civile: il latifondo domina incontrastato sulle strutture economico-sociali, i contadini soffrono ancora di più condizioni di miseria, la vecchia classe dirigente si ritrova quasi integralmente al potere.
Nel 1950, anno della sua scomparsa prematura, Francesco Jovine pubblica Le terre del Sacramento, la storia di una repressione contadina nel Molise. L’autore con questo romanzo che esce postumo nel 1950 vince il Premio Viareggio. Ancora una volta il romanzo, capolavoro della letteratura ignorato dalla scuola, è ambientato a Guardialfiera nell’arco di tempo che va dall’Unità d’Italia al fascismo. Un antico fondo ecclesiastico, passato nelle mani di un latifondista indebitato, viene coltivato da contadini in miseria con la promessa della ripartizione degli introiti al primo raccolto. A promessa non mantenuta i contadini si muovono ad una protesta pacifica, ma fascisti e carabinieri reprimeranno la protesta nel sangue.
Guardialfiera nel 1861 contava 1845 abitanti, oggi la popolazione è dimezzata ed è in corso uno spopolamento inarrestabile che i romanzi di Francesco Jovine non sono riusciti a frenare.
A questo riguardo mi ha molto colpito la vista di un furgone a lato del quale c’erano delle persone in fila: era l’ufficio delle Poste mobile. E’ così che i nostri borghi si stanno spopolando perdendo scuole, uffici postali e bancari, attività commerciali e artigianali, complici politiche governative che negli ultimi decenni hanno fortemente discriminato il Mezzogiorno spingendo ignobilmente verso l’unica amara direzione possibile: l’emigrazione.
[i] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», articolo del 14 giugno 2014.
[ii] Idem.