Mimmo Lucano, paladino dell’accoglienza e dell’integrazione, è stato rinviato a giudizio dal giudice dell’udienza preliminare di Locri, Amelia Monteleone. Alla lettura del verdetto, lui non era in aula. Ha deciso di aspettare a casa, insieme a chi in questi mesi gli è stato vicino. Ma neanche la presenza dei suoi gli è stata di conforto, quando i legali lo hanno informato che dall’li giugno dovrà affrontare il processo. «Sono emotivamente scosso, senza parole – confessa – Sono stato rinviato a giudizio anche per i capi d’imputazione che la Cassazione ha demolito. Evidentemente quello che vale a Roma non vale a Locri». L’11 giugno il sindaco (sospeso) di Riace, dovrà comparire di fronte al Tribunale di Locri per difendersi dalle accuse di associazione a delinquere, truffa, abuso d’ufficio, peculato, concussione, frode in pubbliche forniture, falso, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Con il rinvio a giudizio è scattato per Lucano anche il nuovo termine di decorrenza dell’obbligo di dimora fuori da Riace, che si protrarrà per un altro anno. Il gup ha spedito davanti al collegio giudicante anche Lemlem Tesfahun, compagna di Lucano e altre 25 persone indagate nell’ambito dell’inchiesta «Xenia», inserite a vario titolo nelle cooperative che hanno gestito il modello Riace. Il ministero dell’Interno, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, in qualità di parte offesa, insieme alla prefettura di Reggio Calabria, si costituirà parte civile. La decisione del giudice Monteleone è arrivata dopo sette ore di camera di consiglio e questo la dice lunga sulla complessità dei capi d’accusa contro Lucano. La procura ha chiesto per tutti gli indagati il rinvio a giudizio e nel corso dell’udienza il pubblico ministero Michele Permunian ha presentato una consulenza tecnica che accertava un ammanco di 5 milioni di euro che sarebbero finiti nelle tasche di privati, anziché favorire l’integrazione dei migranti. Gli avvocati della difesa, invece, hanno insistito sul «non luogo a procedere» nei confronti di Mimmo Lucano, per non aver commesso i fatti.