In primavera quasi certamente l’Italia tornerà alle urne: per le elezioni anticipate oppure per il referendum sull’abolizione del Jobs act, che dopo la riforma costituzionale rappresenta l’altro simbolo dei «mille giorni» di Renzi a Palazzo Chigi. E’ vero che la Consulta ancora non si è espressa, ma nel governo come in Parlamento scommettono che la Corte darà l’ammissibilità del quesito. In quel caso si andrebbe a votare in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno del prossimo anno. A meno di un ritorno al voto per il rinnovo delle Camere, che farebbe slittare il referendum di almeno dodici mesi. È una variabile non secondaria nei calcoli che le forze politiche stanno facendo sul timing della legislatura, è un problema soprattutto per il leader democratico oltre che per il nuovo governo e la sua maggioranza. Perché se attorno all’iniziativa della Cgil si coagulassero i Cinquestelle, la Lega e i vari spezzoni della sinistra – minoranza dem compresa – si riprodurrebbe il blocco del “fronte del No” alle riforme costituzionali (forse con l’eccezione di Forza Italia) e si riproporrebbe lo scenario del 4 dicembre. La bocciatura del Jobs act, che decretò la storica abolizione dell’articolo 18, sconfesserebbe il triennio renziano a Palazzo Chigi, comprometterebbe le possibilità di «rivincita» dell’ex premier e azzopperebbe il Pd e i suoi alleati nella corsa elettorale, spianando la strada delle forze antisistema verso la vittoria. Certo, la Consulta deve ancora pronunciarsi. Certo, il governo proverà a correggere parti della legge per tentare di far saltare il referendum. Che il clima «non sia dei migliori» si avverte anche a Pontassieve dove Matteo Renzi fa davvero l’autista ai figli e riscopre «finalmente, dopo tre anni di scorta» il destino dei cittadini normali, «fare una coda di mezz’ora in macchina sulla circonvallazione». Ha sentito un paio di deputati amici e si è fatto raccontare come è andata la giornata della fiducia al governo Gentiloni. Il problema è la durata del governo. O si vota a giugno o si vota a febbraio del 2018. Io non spingo per una soluzione preordinata». «Se non votiamo a giugno, avremo due rogne grandi così», ragiona il segretario dem. Si scatenerà una campagna furibonda sui parlamentari attaccati alla poltrona per prendere il vitalizio che scatta a settembre. Campagna impossibile da arginare. L’altra rogna è lo svolgimento del referendum sul Jobs act, che può diventare il secondo tempo del voto sulla riforma costituzionale.