I primi mesi di prigionia pensavo a come dovevano essere verdi le mie terre, là dove ero nato, mentre la primavera riportava i colori sull’erba rimasta nascosta e bassa per tutto l’inverno. Poi vedevo il fieno farsi giallo con l’arrivo dell’estate, guardavo i fili d’erba dorati sfilare al mio passaggio ai bordi delle strade, alti come addobbi di una festa alla quale non avrei partecipato. Poi avevo smesso di pensare alle terre dove ero nato, avevo smesso di pensare a casa ed anche a come tornarci. Avevo smesso di pensare a qualunque cosa ed a qualsiasi altro luogo che non fosse quella prigione. Ed era questa era la tortura più grande: non potevo più raccontare a me stesso – come avevo sempre fatto quando le cose si mettevano male – che da qualche parte mi attendevano cose più grandi, ed io dovevo solo decidermi a raggiungerle. La mia pena non consisteva già più nell’essere costretto in un sol luogo, bensì in una tortura più sottile: la mia condanna era sapere che non sarei potuto essere in tutti gli altri luoghi. Ero convinto che sarei morto senza vedere tutte le cose che poi avrei visto – e che sapevo mi attendevano, da qualche parte – e questo, più degli stenti, rischiava di farmi impazzire. Se rimasi sano di mente, lo devo solo al mio amico siciliano. Un poeta che avrebbe meritato un miglior altare per il suo sacrificio.
Lo vedevo consumarsi più per l’amore di una donna – lontana da lui più che qualsiasi altra cosa al mondo – che per le torture di quella prigione infame. Alcuni si rovinano all’improvviso, gettando via immense fortune in una notte o per mantener fede a promesse estorte in un letto, e questi erano i più fortunati. Ma non era il caso del mio amico. L’amore per quella donna – che solo lui vedeva – si era andato insinuando dentro di lui come una febbre maligna. Iniziò piano, con dei deliri notturni che distinguevo a malapena dai lamenti degli altri prigionieri, ed ogni tanto mi pareva quasi di cogliere il nome di quella donna nelle sue invocazioni notturne; ma poi quella febbre divenne una vampa che doveva stargli bruciando la ragione, perché dal suo pagliericcio provenivano parole sempre più nitide, che non erano più lamenti – anche se spesso ne conservavano il tono – bensì domande a cui, era evidente, solamente io non sentivo la risposta. Cosi decisi di raccontargli la storia di come avevo perso la mano sinistra. Parte di quello che stavo per raccontargli non era vero, o forse semplicemente non era ancora accaduto, ma noi eravamo poeti, e so che mi avrebbe perdonato.
«Non sono stati i nostri carcerieri a tagliarmi la mano sinistra”
«Non mi avevi mai detto che erano stati i carcerieri”
«Non ti avevo nemmeno mai detto che non erano stati loro”
Se non ero impazzito del tutto, lo dovevo anche a lui. Adesso toccava a me sdebitarmi. Conoscevo l’agonia di smaniare per una donna lontana, di cui però si sono assaggiati i seni e sul cui ventre si è giaciuto innumerevoli notti; non riuscivo però ad immaginarmi cosa dovesse essere soffrire per una donna che io, invece, nemmeno vedevo. «Ero a Lepanto, quel giorno. Vivevo in Italia, prima, presso il conte di Atri. Facevo una vita comoda, ed ebbi il tempo di scrivere alcune cose con una certa soddisfazione. Poi venni accusato di aver ingiuriato un uomo, e per questo dovevo perdere la mano destra. Così, quando seppi che i cristiani preparavano una flotta, m’imbarcai. Il primo colpo di archibugio di quella battaglia mi portò via quella sinistra. È per questa fortuna che posso continuare a scrivere»
«Il muro dei legni ottomani era impressionante, e avrebbe fatto paura a chiunque: ma ti confesso che avrei tremato anch’io, se in mare con noi spagnoli non ci fossero stati i Viceregni di Napoli e Sicilia, i Cavalieri di Malta, i pontifici, i genovesi, il Ducato di Savoia, il Ducato d’Urbino ed il Granducato di Toscana, ma soprattutto i Veneziani. Questo significava che gli ottomani avevano i legni, ma noi avevamo i cannoni. Eravamo la Lega Santa, eravamo la più grande coalizione cristiana dai tempi delle crociate, e non ci mettemmo molto ad avere ragione dei nostri nemici. Cinque ore dopo il primo colpo di cannone, la testa di Alì Pascià – uno dei tre ammiragli turchi – pendeva dall’albero maestro dell’ammiraglia spagnola ed il cadavere di Mehmet Shoraq – il secondo – galleggiava insieme a quelli dei suoi servitori. Solo il terzo era vivo. E stava portando in salvo quel che rimaneva della flotta ottomana. Il rinnegato, lo chiamavano. Uluč Alì».
Il rinnegato
«Lo avevano chiamato in molti modi, prima di allora. Lui voleva che lo chiamassero Kılıç Alì, Alì la Spada, ma continuavano a chiamarlo con l’altro nome, Uluč, il rinnegato, perché era vero, era un rinnegato: era nato cristiano, e lo era rimasto fino a quando uccise un musulmano, e allora si fece musulmano anche lui, per non essere ucciso a sua volta. Chiunque l’abbia incontrato racconta che il suo aspetto non emanava alcuna ferocia – era basso e con le cosce possenti – ma il suo sguardo, invece, sì: dicono anche che non ci fosse nulla che non sarebbe stato in grado di fare. Avrebbe conquistato un impero da solo, se ne avesse avuto il tempo. Stava pescando sulle coste della Calabria, non lontano dalla sua casa, quando lo presero gli ottomani. Utilizzava ancora il suo primo nome, allora, il suo nome da cristiano: Giovanni, don Giovan Dionigi Galeni, pescatore. Ma tutti, per via della tigna che aveva sulla fronte, lo chiamavano il rognoso».
Un demonio al comando
«Non si può sperare di riuscire a stancare un uomo venuto dalla Calabria. Come un bardotto dalla criniera folta che ha intuito la sua meta, remava così tanto che in pochi giorni quegli stessi ottomani che lo avevano incatenato ai remi lo misero davanti a tutti a dettare il ritmo. Meno di un anno dopo, comandava la galea dove era stato incatenato. E non fu per caso che si salvò, a Lepanto: fu lì che lo vidi anch’io, sulla prua del suo legno a impartire ordini in prima persona. Come dicevo, sembrava un uomo più giovane della sua età, ed il suo spirito trascinava quella nave sui flutti con un impeto divino, così come aveva fatto quando dava il ritmo agli altri rematori. Divenne presto famoso per i saccheggi che compiva: non vi era giorno che non avesse condotto nei porti ottomani un gran numero di prede, di legni e di schiavi. Così il Gran Signore Selim gli diede il comando di una piccola flotta, e alla testa di essa continuò le sue fortunate scorrerie. Pareva che nessuno al mondo, cristiano o musulmano che fosse, potesse fermarlo: scaltro, il demonio stesso avrebbe esitato prima di ingaggiar battaglia. Nel canale di Malta – era il 15 luglio 1570, un anno quasi prima di Lepanto – quando tutti si aspettavano di vederlo dirigersi su Cipro per coglierla di sorpresa, si lanciò in mare aperto ed intercettò le navi con i rinforzi. Le vinse e le condusse in trionfo in Bisanzio. Alla fine volse il suo sguardo su Cipro, ormai vulnerabile. Poi continuò le sue prodezze: nell’assedio di Malta, nell’invasione dell’Africa, nel corseggiare la Dalmazia, le Isole dell’Arcipelago, e tutte le spiagge cristiane nei reami di Sicilia e Napoli, fino allo stretto di Gibilterra».
Nessun ritorno
«Fu in una di quelle notti, dopo aver saccheggiato le coste vicine a dove era nato, che volle far visita a sua madre: le presentò grandi tesori e superbi arredi, dicendole che non conveniva quello stato sì misero alla madre di un Pascià de’ turchi, di un genero di Selim, e di un re di tre corone. Ma la donna, ormai vecchia, disse che si considerava, nella sua povertà, più ricca di lui per la fede di Cristo. “Va via, maledetto per sempre da Dio, e da me!”. Pare che così disse, ma a questa storia credono solo gli spagnoli. Tranne me. Ci credettero pure i comandanti cristiani, perchè si consolavano al pensiero di quel dolore: gli stessi comandanti che, a sentir pronunciare il suo nome, tuttora gli cedono il campo sul mare, e si ritirano impauriti nei porti».
La rovina
«Dopo Lepanto, Selim lo fece capo di tutte le flotte ottomane. L’uomo fatto schiavo quella notte in Calabria, adesso era il secondo uomo più potente dell’impero: a lui ormai tutto era concesso. O quasi. A fermarlo non furono gli assassini di palazzo né i nemici cristiani. L’unica cosa in grado di fermare un uomo come lui era una donna come lui. Zoroastra, si chiamava. Una musulmana convertita al cristianesimo. Una rinnegata. Quando la condannarono a morte, Uluč Alì fece tutto ciò che era in suo potere per salvarla. Ma Selim in persona negò la grazia che il suo ammiraglio chiese per lei. Così, si accorse di amarla veramente quando era ormai troppo tardi. Lo colse una febbre improvvisa, come non ne aveva mai conosciute prima: d’improvviso perse il suo vigore, e i suoi servi lo vedevano vagare per le stanze della sua reggia come se scontasse una pena infernale; come se camminando all’infinito – instancabile com’era stato – avesse potuto tornare da lei, ritrovare Zoroastra, raggiungerla nell’abisso da cui nessuno ritorna, e fondersi con lei, placando il suo strazio. Alla fine ce la fece. Lo trovarono morto poche settimane dopo: Uluč Alì, colui che solo aveva fatto tremare i cristiani di mezza Europa, giaceva rannicchiato sul marmo nudo del suo palazzo. Coloro che lo trovarono dissero che adesso il suo volto non emanava più quell’energia che da sola trascinava le navi sopra i flutti, nel folto della battaglia, ed appariva per il vecchio che era: la morte gli rese le sue reali sembianze, ma non lei lo privò del suo spirito. Era stata, suo malgrado, Zoroastra. L’amore per una donna che nessuno, all’infuori di lui, poteva vedere».
Nome di donna
Il mio amico siciliano ci rimase altri otto anni nella nostra prigione di Algeri. Non l’avevo dimenticato, ma ormai pensavo a lui raramente. Non avevo idea di quale destino gli fosse toccato in sorte. Fino ad ora. Ricordo ancora quel che mi disse dopo che gli ebbi raccontato quella storia. Ero preoccupato e volevo salvarlo, perché si stava consumando pensando ad una donna che io nemmeno riuscivo a vedere. “La donna che io vedo, e che va prendendo forma e sostanza nelle mie notti insonni, è vera più di quanto potrei mai dirti con le mie parole. Tu non la vedi, ma io chiamo il suo nome e so che esiste: questa è poesia». Mi è venuta in mente questa storia per via di questo libro che stringo tra le mani. Un’ode ad una donne il cui nome non colsi subito, almeno finché non mi tornò alla mente il suono della sua voce: quella del mio amico siciliano, che lo sussurrava ripetendolo come una nenia, ed a lui si rivolgeva in quel dialogo dal quale io ero escluso. Celia, questo era il nome. Stringevo tra le mani l’ode a Celia scritta dal mio amico, il poeta Antonio Veneziano. Sto pensando in questi mesi ad un’opera che parli di un nobile visionario, che ama una donna a tal punto che il suo amore per lei supera i confini del reale. Un poeta innamorato di una donna che esiste solo per lui. Lo terrò in mente, ora che mi accingo a scrivere le prime pagine delle avventure dell’ingegnoso gentiluomo don Quijote della Mancha.
I PERSONAGGI
Miguel de Cervantes Saavedra è stato il più importante romanziere spagnolo: nel 1571 prese parte alla battaglia di Lepanto, dove la sua strada si incrociò con quella di Uluç Alì Pascià, nato in Calabria e battezzato cristiano col nome di Giovan Dionigi Galeni. Cervantes, in seguito, verrà catturato dagli ottomani e passerà cinque anni di prigionia ad Algeri, dove conoscerà Antonio Veneziano, poeta siciliano del quale diverrà molto amico ed al quale dedicherà la novella “El amante liberal”.