Di AMEDEO FENIELLO
La cattedra primaria mattutina di leggi, minore della vespertina ma con salario di scudi seicento era tutto quello che in quel momento, il 24 marzo 1723, all’età di cinquantacinque anni, Giovanbattista Vico desiderasse. C’aveva messo il pensiero, soprattutto su quei 600 scudi. Avrebbe significato dire basta. Basta a lezioni private. Basta a pressione della famiglia, della moglie, degli otto figli, del padre, dei fratelli: sempre a bussare. A Domandare. A chiedere cosa servisse tutto quel tempo – e quelle notti – perse sui libri, invece di pensare a cose serie, a cose fattive. Ma la questione non erano solo i soldi. No. Finalmente Professore di diritto, con la Pi maiuscola. Un’eccellenza, dopo decenni di umiliazioni, di sfottò, di sfinimenti appresso a persone senza merito, prive di spirito, carenti come carenti erano le sue giornate. Ecco cosa sarebbe stato il nuovo incarico: una medaglia alla carriera. Una carriera che, lui lo sapeva, aveva pochi paragoni.
Le cattedre da distribuire erano sette. La sua, di Jus civile della mattina, la principale, con salario annuo di seicento scudi. Le altre a digradare, sino a quella di Istituzioni canoniche, con un salario di appena sessanta scudi. Si era iscritto subito, al concorso. Con lui, altre quattordici persone. E Vico si lancia in questa avventura. E lo spiega. Perché la cattedra lui la meritava, dice nell’Autobiografia, non solo perché sulla materia era il migliore sulla piazza ma in quanto, con le sue opere, “aveva onorato tutti, giovato a molti e nuociuto a nessuno”.
Eccolo lì, Giovanbattista. Pronto a sostenere la prova: una lezione, una volta ottenuto dalla commissione il tema, da trattare entro le ventiquattrore successive, tradizione che si è conservata nelle nostre università fino a ieri. Il tema: un passo delle Questiones di Papiniano, argomento tutt’altro che facile. E Vico si mette a pensare. Non a cosa avrebbe dovuto dire. Ma ai suoi avversari. Proprio così: a cosa loro speravano che lui dicesse. Che si perdesse nei suoi strani arzigogoli mentali. In premesse lunghe come il mare, inascoltabili. Attorcigliate come un cesello barocco, da sfinire la commissione. Scogli retorici, contro cui Vico sarebbe andato sicuramente a sbattere.
Questo si aspettano i nemici? Allora, pensa Vico, cambiamo tattica. I nemici bisogna abbatterli, ad uno ad uno, come birilli. Con argomentazioni. Temi. Strutture dialettiche raffinate ma non barocche. Perciò bisogna innovare. Rompere dice le leggi stabilite. Per farlo, c’è bisogno di uno sforzo. Di ragionamento. Allora, si chiude in casa. Si mette a studiare. Chiama qualche amico, per avere consiglio. Ma non riesce a concentrarsi. Il pensiero si muove a tratti.. Si sforza, mentre i figli fanno casino, girano per casa, danno fastidio. E’ lo strepito dei figliuoli, che di sempre lo accompagna. Altro nemico che, anch’esso, va abbattuto. Fagocitato proprio dal pensiero. La lezione intanto si forma, nella sua testa. Ma, per uno melanconico come lui, c’è bisogno della notte. La aspetta. Solitudine. Silenzio. Un lumino accanto, a dargli un po’ di luce. La trascorre tutta, pari pari, da sveglio. Sono le cinque. E’ pronto. E’ teso. Esce di casa prestissimo. Va al concorso.
Si era preparato uno schema. Lo apre davanti alla giuria. Ma non ce n’è bisogno. Lo conosce a memoria. Passaggio dopo passaggio. La voce gli si spezza un po’, ma è l’inizio. Riprende ritmo. E’ un fuoco d’artificio: alterna citazioni in latino e in greco. Non gli sembra una lezione, ma una recitazione: equilibrata, ben composta, dove i toni e gli accenti si riallacciano in ogni momento, come in una sinfonia. Solo in un momento sembra cadere. Sembra fermarsi. Dice per la difficoltà della voce. Ma si riprende. Ai più sembra una pausa voluta, da attore consumato. La lezione finisce. E’ un successo. Gli amici sono fuori. Si complimentano. Ha vinto.
Invece no. Ha perso. Nessuno della commissione gli dà un voto – neanche uno! – favorevole. E’ bocciato: all’unanimità. Vince un tal Domenico Gentile, candidato del cardinale. Che, si dice, prenda qualche voto in più del candidato del vicerè. Per Vico è uno shock. E scrive, tempo dopo, parlando di sé in terza persona, che in quel momento “disperò per l’avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria”. Ma Vico ha carattere. Lui è l’esempio stesso di cosa sia l’ottimismo della ragione. E non demorde, perché “da questo colpo di avversa fortuna, onde altri avrebbero rinunziato a tutte le lettere … egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere”. E ne esce più forte. Lo volevano morto? Non è morto. Lo volevano finito? Non è finito. Si è corazzato. Non è più lui a subire le regole. Lui ora le detta. Perché si mette a pensare a qualcosa di rivoluzionario. A un metodo che permetta – a tutti – di osservare il mondo (la sua storia, la sua vita…) dall’alto e di comprenderlo interamente. Un metodo fatto di filologia e di fantasia, da cui è scaturita la modernità. La nostra modernità. Che non poteva avere nome migliore. Scienza nuova.
Nulla di nuovo sotto il cielo!!! Quanti Giambattista Vico ancora ci sono in attesa di un giusto riconoscimento mentre mezze figure dotate dell’acume di una lenticchia e della vivacità di un corpo morto passano concorsi universitari organizzati apposta per loro???