Giuseppe Antonio Martino
È opinione comune che l’emigrazione italiana sia stata un fenomeno quasi esclusivamente meridionale, che solo marginalmente ha interessato alcune regione del Nord della Penisola. Tale convinzione è derivata, forse, dal massiccio esodo di contadini lucani, calabresi, e siciliani che, in effetti, dopo il fascismo, hanno lasciato le loro terre in cerca di nuova fortuna.
Ad emigrare per primi, però, contrariamente a quanto si pensi, sono stati, prima dello sviluppo industriale, proprio i settentrionali, coloro che abitavano quelle che oggi possono essere considerate le più ricche Regioni d’Italia: i contadini piemontesi, lombardi e veneti e l’emigrazione è rimasta un fenomeno prevalentemente settentrionale fino al 1900.
Già sin dal Quattrocento si erano sviluppati, nell’Italia centro-settentrionale, importanti fenomeni migratori e, anche se non si hanno sufficienti dati certi per tracciare una storia delle migrazioni pre-unitarie, è noto che da molte regioni d’Italia muratori, terrazzieri, braccianti, ancor prima dell’unità, lasciavano le loro case per effettuare lavori stagionali in Francia, in Spagna, nei paesi balcanici. Anche in Oceania, un continente quasi sconosciuto, all’inizio dell’Ottocento, arrivarono i primi italiani. Specialmente dalla Valtellina, dopo il 1851, iniziò l’emigrazione verso l’Australia, ma ebbe, a quei tempi, uno spiccato carattere di temporaneità, anche se nel 1869 gli italiani nel continente nuovissimo ammontavano a 1.700.
La questione dell’emigrazione fu sollevata, per la prima volta, nella Camera dei Deputati, il 30 gennaio 1868, da un’interrogazione dell’On. Ercole Lualdi di Busto Arsizio che, rendendosi interprete delle preoccupazioni dei grandi proprietari lombardi per la perdita di manodopera a basso costo, minacciosamente, chiedeva al governo di prendere severe misure contro quel fenomeno che definiva non “ buono per la causa politica del Regno”, in quanto “incoglie sempre un grave discredito al paese che non dà modo di vivere alla popolazione laboriosa”. Nello stesso anno anche Ercole Ferrario, un intellettuale di Samarate (VA), autore con Rinaldo Anelli, parroco di Bernate Ticino, di una monografia dal titolo Le classi agricole del circondario di Abbiategrasso, che poi andò a confluire in quella ponderosa opera nota come l’inchiesta agraria Jacini, in una memoria dal titolo Intorno all’emigrazione che avviene nel circondario di Gallarate, parlando dei contadini della pianura lombarda, affermava: « codesta popolazione casalinga, modesta, paziente, incuriosa e quasi dico timida, adesso a frotte lascia i propri casolari ed ogni cosa più caramente diletta e, datasi in balìa di gente ignota, stivata sulle navi, affronta volenterosa i disagi ed i pericoli di una lunga navigazione per cercare una nuova patria in paesi lontanissimi dei quali ignora gli usi, la lingua, il clima e che sa flagellati spesso da spaventose e micidialissime malattie».
Il linguaggio di Ferrario, però, al contrario di quello dell’On. Lualdi e dei grandi proprietari lombardi e milanesi, era un linguaggio dolente, segnato da profonda umanità, da grande comprensione: ne capiva le cause e giustificava chi lasciava la propria casa in cerca di fortuna.
Certo l’Intervento dell’On Lualdi ha proposto ufficialmente, per la prima volta, una problematica destinata a caratterizzare per lunghi anni la storia sociale e politica d’Italia.
Al deputato lombardo rispose Luigi Manabrea, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, assicurando provvedimenti governativi tali da impedire che gli emigranti restassero in balia degli “arruolatori”, ma non mancarono in quella seduta del Parlamento opinioni e valutazioni opposte. Stefano Castagnola, futuro ministro dell’agricoltura del Governo Lanza, invitò a non ignorare «il lato altamente buono, altamente proficuo dell’emigrazione», fonte di ricchezza non solo per «i poveri e cenciosi contadini», ma anche per il paese[1].
L’atteggiamento del Governo si palesò, fin dall’inizio, repressivo nei confronti dell’emigrazione, forse perché a partire verso il continente americano, spesso, non erano singoli uomini ma interi gruppi familiari, e quello stesso anno una circolare del ministro dell’Interno intimava ai Prefetti e ai sindaci «di non lasciare partire per l’Algeria e l’America che solamente coloro che giustifichino di averci un’occupazione ben assicurata, ovvero mezzi sufficienti di sussistenza».
Al provvedimento, inteso come lesivo della libertà individuale, si oppose vigorosamente l’intellighentia liberale, fra cui Jacopo Virgilio, professore di economia all’Università di Genova[2].
Gli interventi delle prefetture non tardarono, ne è testimonianza una circolare con cui il prefetto di Milano, forse sollecitato dai proprietari lombardi e milanesi che, anche se in termini niente affatto comprensivi, si dimostravano molto preoccupati e manifestavano timore e meraviglia dinanzi a questo esodo, il 20 ottobre 1868, dando seguito alle direttive del Governo, «invita e prega i signori sindaci a volere (…) adoperare tutti i mezzi di dissuasione e a ritrarre quegli sconsigliati dal pericolo in cui si gettano così alla cieca”.
I primi dati sull’emigrazione italiana sono le statistiche “private” di Leone Carpi in cui risultano, nel triennio 1869-1871, ben 53.655 espatri, con una punta massima nel 1869.
Anche se uno storico rastrellamento è stato operato, soprattutto in Calabria, negli anni sessanta, durante lo scavo del canale di Suez (vi furono impegnati migliaia di braccianti dei quali solo pochi tornarono in patria), per le regioni meridionali non si hanno, nei primi decenni del Regno, statistiche sicure e soltanto dopo il 1870 il fenomeno migratorio ha cominciato ad interessare anche il Mezzogiorno della nostra penisola.
Molti cittadini del Sud, come risulta dalle ricerche successive, non avevano neppure la possibilità di pagarsi il viaggio di espatrio, eppure, tra il 1860 e il 1867, si è registrata, in base a calcoli approssimativi, una flessione della emigrazione, che Francesco Saverio Nitti dimostrò in diretto rapporto col boom del brigantaggio. Molti disoccupati, invece di emigrare, si davano ai taglieggiamenti e ai soprusi, in aperta rivolta con lo Stato.
Aveva modo così di verificarsi la famosa alternativa che i fautori dell’emigrazione prospettavano ormai come ineluttabile: emigranti o briganti.
I fenomeni di emigrazione che avevano preceduto l’unità si ingrossarono con l’arrivo delle agenzie di emigrazione che trovarono nelle zone agricole del meridione una “riserva di carne umana” a basso costo. Agli agenti regolarmente autorizzati, dato il continuo aumento del numero di coloro che volevano emigrare, si aggiunsero organizzazioni clandestine che, a volte, dopo aver riscosso le tangenti, abbandonavano gli emigranti al loro destino.
Il primo provvedimento contro le agenzie è la circolare Lanza, del 18 gennaio 1873, criticata da Sidney Sonnino. In realtà la classe dirigente e il mondo intellettuale erano divisi in due fronti: i liberali e tutte le forze innovatrici erano per l’emigrazione, i conservatori contro.
Il 1876 fu un anno cruciale. La sinistra al potere rilanciò il problema dell’emigrazione, che ormai era un fenomeno di massa, ed individuò la causa primaria nello sfacelo dell’agricoltura, che i gravami del nuovo regno (leva militare di sei anni, sovraccarico fiscale che colpiva i prodotti agricoli, ecc.) avevano mandato alla deriva.
Si promosse una battaglia per salvare l’agricoltura e si diede maggior impulso alla politica dei lavori pubblici. Tra il 1875 e il 1899 si costruirono i primi bracci ferroviari; del 1882 è la “legge Baccarini” sulle bomifiche; del 1893 le leggi Genova e Lacava sulla sistemazione dei bacini montani.
Ma l’emigrazione esplose ugualmente.
Le correnti migratorie “permanenti” si diressero verso le Americhe (Stati Uniti, Uruguay, Argentina), in minore entità verso l’Africa (Egitto, Tunisia, Algeria). Le correnti “temporanee” raggiunsero gli Stati europei (Francia, Austria-Ungheria, Svizzera, Germania). Il meridionalismo liberale, in opposizione al Governo, intensificava la campagna per la libertà di emigrazione, presentata come la via “naturale” e “spontanea” per la soluzione della questione meridionale.
Fautori dell’emigrazione furono i meridionalisti più illuminati: Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Napoleone Colajanni, Sidney Sonnino, Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato.
Il dibattito sulle cause si fece più acceso in seguito alla presentazione della famosa “Relazione finale sui risultati dell’inchiesta agraria”, votata in Parlamento nel 1877 e terminata nel 1884, “l’inchiesta Jacini” che mostrò all’opinione pubblica la situazione allarmante delle campagne meridionali.
Appare comunque chiaro che solo in un secondo tempo, a partire grosso modo dai primi anni del Novecento, c’è stato un cambiamento: anche se le correnti migratorie del Nord Italia rimanevano attestate su cifre considerevoli, il primato passava alle regioni meridionali.
In questo clima fu propugnato il colonialismo come valvola di sfogo per il surplus demografico, ma anche per ragioni economiche e di prestigio, ma Sonnino, esponente della tendenza colonialista del periodo crispino, combattè per la libertà di emigrazione. Anche Francesco Crispi, ereditando la prudenza e la moderazione dimostrata nella questione dal Depretis, presentò, nel 1887, un progetto di legge sulla tutela dell’emigrazione in cui, fra l’altro, si consentiva l’intervento di agenzie munite di permesso ministeriale: la figura dell’“agente di emigrazione” diventerà in seguito una professione, tanto che negli anni seguenti opereranno in Italia ben 20 mila agenti. Contro il Progetto Crispi si pronnciò il giovane Francesco Saverio Nitti, prima ancora di laurearsi, a soli vent’anni, con il saggio L’emigrazione italiana e i suoi avversari, accusando l’avversario di fare gli interessi degli agrari e di ostacolare, di fatto, l’emigrazione. Si innestava nella polemica la tesi dei socialisti (Costa, Colaianni) che bollava l’emigrazione come “fatto dolorosissimo” e respingeva l’argomentazione liberista secondo la quale l’emigrazione era valvola di sicurezza. Solo le riforme sociali potevano rimuovere la causa prima: la miseria.
Tra il 1888 e il 1900 la corrente emigratoria, malgrado le misure restrittive, si ingrossò progressivamente e la questione dell’emigrazione diventò il problema politico interno più dibattuto. Nel luglio 1896 fu presentata alla Camera dall’On. Pantano una proposta organica e completa di legge sull’emigrazione. Ad essa il Governo contrapponeva un proprio disegno di legge a mezzo del Ministro degli Esteri Visconti Venosta. La commissione parlamentare giungeva ad accettare il disegno di legge del Governo e stendeva un’unica relazione (Relazione Luzzati-Pantano). La legge prevedeva la soppressione delle Agenzie di Navigazione e l’Istituzione di un apposito Commissariato per l’Emigrazione, delegato alla vigilanza sui prezzi dei noli e sulle condizioni dei trasporti. Alla discussione parlamentare vivacissima, svoltasi tra il novembre e il dicembre del 1900, parteciparono nomi quali Maffeo Pantaleoni, Luigi Luzzati, Ettore Ciccotti, Leonida Bissolati. La legge diede il via a un vero e proprio esodo di massa. Tra il 1901 e il 1913 emigrarono in america 4.711.000 italiani, di cui 3.374.000 meridionali.
La legge del 1901 aveva contribuito a dare un poderoso impulso agli espatri. Per tutti gli anni dell’età giolittiana la vecchia polemica si rinfocolò, accesa da nuovi contributi. Lo stesso primo commissario all’emigrazione, Bodio, nella sua relazione del 1904, denunciava i limiti della nuova legislazione. I comitati di assistenza erano inoperanti; alla speculazione degli agenti si era sostituita quella dei noleggiatori e dei rappresentanti di vettore. Significativo è il fatto che al coro delle denunce si associò lo stesso Pantano. Nitti presentò alla Camera una vera requisitoria che non mirava tuttavia all’abolizione della legge, ma a invocare la reale attivazione. In difesa della legge si levò pure Filippo Turati.
Ormai erano soprattutto la Sicilia, la Calabria, la Campania ed altre regioni meridionali a dare il maggior contributo agli esodi all’interno dei quali, bisogna ricordarlo, c’è anche una componente quantitativamente non precisabile – perché mancano i dati – composta da giovani che emigrano per non fare il servizio militare, che allora era un’esperienza gravosa, vissuta in termini estremamente negativi.
Per avere un’idea della dimensione dell’esodo consideriamo qualche cifra: dal 1876, anno in cui lo Stato italiano cominciò a censire per la prima volta i flussi migratori, al 1914, vigilia della prima guerra mondiale, erano stati ben 14 milioni coloro che avevano varcato i confini nazionali e si erano diretti un po’ in tutte le parti del mondo e in particolar modo nel continente sudamericano, Brasile ed Argentina, e negli Stati Uniti. Solo negli Stati Uniti entrarono in quell’arco di tempo quasi sei milioni di emigranti italiani e il mezzogiorno registra un vertiginoso aumento della sua percentuale di partecipazione all’emigrazione: 7% nel 1876, 33 % nel 1890, 45 % nel 1913.
Ed è da considerare che le cifre sono approssimate per difetto perché l’emigrazione reale fu un fenomeno di gran lunga superiore e possiamo approssimativamente calcolare che circa un terzo di coloro che partivano non furono censiti perché emigravano clandestinamente, senza documenti, senza passaporto. I settentrionali partivano, in genere, da Le Havre, nel nord della Francia, i meridionali, invece, affluivano quasi tutti nel porto di Napoli dove si imbarcavano per approdare nel continente americano.
Nei primi anni del 900, alle argomentazioni economico-sociali contro l’emigrazione, si venne ad aggiungere un nuovo elemento ideologico: il nazionalismo.
In un articolo del 1903, Enrico Corradini, capo del nazionalismo italiano, affermava icasticamente che una sola arma era buona per provvedere all’emigrazione: il distruggerla.
All’estero, affermavano i nazionalisti, il lavoro italiano è tutto, gli italiani nulla. Il protezionismo operaio li lasciava in balia delle più pesanti umiliazioni.
Inoltre l’emorragia di braccia valide faceva abbassare la produttività del lavoro in Italia; gli operai, quando rimpatriavano, erano ormai inabili, minati dalle malattie.
Lo scoppio della guerra mondiale segnò una pausa nella polemica e una flessione velocissima degli espatri. Un Decreto del 6 agosto 1914 sospendeva la facoltà di emigrare a tutti gli iscritti di leva e militari di qualunque categoria. La cifra degli espatri scese da 872.598 del 1913 a 479.152 del 1914 e a 146.019 del 1915.
Il tasso di emigrazione resterà contenuto in cifre moderate anche nell’immediato dopoguerra, fino all’avvento del Fascismo, anche se, nel 1920, il 55 % di coloro che lasciavano il suolo nazionale erano meridionali.
Con il Fascismo la tesi nazionalista prevalse, l’emigrazione venne repressa e venne rilanciata la politica coloniale come valvola di sfogo all’esuberanza demografica. Un popolo di emigranti diventò così un “popolo di trasmigratori”.
La costituzione dell’impero fascista costò all’Africa cinquecentomila morti ed anche se è vero che coloro che invece di emigrare, nelle colonie, vissero per qualche anno da padroni, il risultato finale fu catastrofico.
Lo sfacelo in cui è rimasta l’Italia dopo la seconda guerra mondiale ha imposto una seconda ondata migratoria.
L’articolo 35 della nostra Costituzione, «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero». La scelta di inserire nella stessa carta costituzionale un esplicito richiamo all’emigrazione mostra, non solo la volontà di segnare un netto cambiamento con la politica di forte chiusura autarchica del fascismo, ma anche il sostanziale accordo sulla necessità dell’emigrazione che si creò durante i lavori della Costituente.
La seconda emigrazione, quella verificatosi dopo il ventennio fascista, negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, ha interessato principalmente l’Italia meridionale, ha posto in evidenza le differenze tra Nord industrializzato e Sud agricolo ha avuto caratteristiche diverse rispetto alla prima emigrazione verificatasi tra la seconda metà del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo.
È possibile parlare di: emigrazione interna prevalentemente dalle regioni del Mezzogiorno verso il cosiddetto triangolo industriale (Genova, Torino, Milano); emigrazione europea che ha avuto come destinazione soprattutto stati come Francia, Svizzera, Belgio e Germania; emigrazione oltre Oceano, non più soltanto verso l’America, dove continuarono ad emigrare coloro che in quel continente avevano parenti che garantivano loro accoglienza, ma principalmente verso l’Australia.
Ad emigrare verso il Nord dell’Italia sono stati i giovani, in cerca di lavoro nelle città industrializzate, i più fortunati dei quali, più tardi, si son fatti raggiungere dalle famiglie, o contadini che trovavano occupazione stagionale in Liguria, nella riviera dei fiori.
Quella verso i paesi europei era considerata da molti, al momento della partenza, come un’emigrazione temporanea – spesso solo di alcuni mesi – nella quale lavorare e guadagnare per costruire, poi, un futuro migliore. Tuttavia questo fenomeno non si verificò e molti sono rimasti nei paesi di emigrazione.
Lo stato italiano firmò nel 1955 un patto di emigrazione con la Germania con il quale si garantiva il reciproco impegno in materia di migrazioni e che portò quasi tre milioni di italiani a varcare la frontiera in cerca di fortuna. Molti cittadini italiani attualmente presenti in Germania in Svizzera o in Belgio, fino alla quarta generazione, prevalentemente di origine siciliana, calabrese e pugliese, ma anche veneta ed emiliana, sono in possesso di doppio passaporto e godono della possibilità di voto in entrambe le nazioni. Molti di loro rientrano in Italia dopo il pensionamento, ma i figli e i nipoti restano nelle nazioni di nascita, dove hanno ormai messo solide radici.
Quella verso l’Oceania si presentava, già dall’inizio, come un’emigrazione dal ritorno quasi impossibile, eppure ha raggiunto numeri veramente considerevoli. Oggi, la maggior parte di coloro che è giunta in Australia è concentrata nelle grandi aree metropolitane di Melbourne (200.000), Sidney (180.000), Adelaide (87.000), Perth (63.000) e Brisbane (47.000).
Parlando di emigrazione, non è da trascurare un altro fenomeno venutosi a creare negli anni sessanta del secolo scorso e che ancora perdura, anche se in minore misura: all’emigrazione operaia si è aggiunta l’emigrazione intellettuale, costituita da decine di migliaia di giovani che ancora oggi, nonostante la presenza di tanti atenei nel sud della penisola, preferiscono spostarsi dalle regioni di origine per frequentare le università del Centro-Nord e, spesso, non ritornano più al Sud.
[1] Corbino E., Annali dell’economia italiana 1861-1914. Città di Castello, Leonardo da Vinci, 1931.
[2] Virgilio J., Delle migrazioni transatlantiche degli italiani, Genova 1868.
1 thought on “Quando erano i settentrionali i primi migranti della storia”
Comments are closed.