di Michele Eugenio Di Carlo
Gaetano Salvemini, nato a Molfetta l’8 settembre 1873, è stato uno dei maggiori intellettuali
italiani della prima metà del Novecento. Storico, giornalista, politico, attento studioso delle
condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, ha dato vita a una critica radicale al
meridionalismo moderato interpretato dagli esponenti che facevano capo alla rivista fiorentina
“Rassegna settimanale”, fondata nel 1878 dai giovani toscani Leopoldo Franchetti e Sidney
Sonnino, autori de “La Sicilia del 1876” 1 . Rivista che aveva accolto tra le sue fila meridionalisti di
spessore quali Pasquale Villari, autore delle “Lettere meridionali” 2 , e Giustino Fortunato, che già
nel 1879 aveva scritto “La questione demaniale nell’Italia meridionale” 3 .
I cosiddetti “rassegnati” 4 avevano fatto emergere la questione meridionale. Partendo da Villari,
avevano stimolato finalmente un dibattito serio sulle condizioni sociali ed economiche del
Mezzogiorno, riservando alle politiche governative dei primi decenni una critica serrata, parte
rilevante della storia del meridionalismo. Grazie ad essi la questione meridionale era diventata una
questione nazionale, sempre e solo nell’ambito limitato di un contesto politico conservatore che,
nel 1876, passava dalla Destra storica alla Sinistra. Molti dei rassegnati, nell’ambito del
trasformismo inaugurato nel 1882 da Agostino De Pretis, avrebbero fatto carriera, rivestendo
anche ruoli politici di prim’ordine.
Gli intellettuali della “Rassegna settimanale” avevano ingenuamente confidato nel riformismo
sociale dello Stato e nel senso di responsabilità della potente classe della borghesia agraria
latifondista, affinché si ponesse fine alla discriminazione che il Mezzogiorno e le sue masse
popolari subivano in ragione di scelte politiche economiche e fiscali inique. Ma il divario Nord-Sud,
a fine secolo, era notevolmente cresciuto, come rimarcava Francesco Saverio Nitti nel 1900 in
“Nord e Sud” 5 , opponendosi radicalmente a chi tentava di ridurre il mancato sviluppo del
Mezzogiorno a condizionamenti di natura antropologica, trascurando totalmente studi, analisi,
statistiche, bilanci statali, che attestavano distintamente che il divario era nient’altro che il risultato
untuoso di scelte politiche economiche, finanziarie e fiscali.
Lo storico Massimo Luigi Salvadori, in un saggio su Salvemini 6 , in merito alla critica netta ai
“rassegnati”, riporta le seguenti rivelanti parole dell’intellettuale pugliese: «Se sono stati studiati
benissimo i rimedi, non è stato ancora detto chi rimedierà. In generale gli studiosi del problema
meridionale questa domanda o non se la mettono mai o rispondono subito con una parola
bisillaba: lo Stato! […] E lo Stato fa il sordo. E poi studiosi continuano nelle loro concioni e
eloquentissime. Lo Stato italiano non farà mai nulla, come non ha fatto finora mai nulla» 7 .
Gaetano Salvemini si laurea in Lettere a Firenze nel 1896, dove riceve le lezioni di storia di
Pasquale Villari. Nell’ex capitale toscana frequenta i circoli socialisti ed entra in contatto con il
materialismo storico, maturando una tendenza già innata a difendere i diritti degli ultimi. Già nel
1898, a soli venticinque anni, Salvemini pubblica il saggio “La questione meridionale”, in cui valuta
il sottosviluppo del Mezzogiorno basandosi su ricerche storiche e individuando nell’accordo tra la
borghesia industriale del Nord e quella agraria del Sud, – complice lo Stato sabaudo -, le ragioni
reali e concrete dell’arretratezza. Un’arretratezza che si basa sulla conservazione voluta di una
struttura economica nel Mezzogiorno semifeudale, dove i cittadini sono tenuti in condizioni di totale
sottomissione al ceto dominante, con governi sempre pronti alla repressione violenta dei frequenti
moti popolari o rivolte. Da qui la polemica salveminiana contro i governi liberali, la critica ai
meridionalisti moderati, immobilizzati alla ricerca sterile di un solo immaginaile “mito del
buongoverno”. Il tutto mentre cresce l’esigenza di costituire una forza politica e un blocco sociale
che tutelino finalmente il Mezzogiorno, quando i suoi rappresentanti in Parlamento vengono
accuratamente selezionati per tutelare gli interessi degli industriali del Nord e dei latifondisti del
Sud.
Il radicalismo classista di Salvemini lo porta a fine secolo a immaginare la fine di una
monarchia, che aveva tentato, nel 1894, con Francesco Crispi contro i fasci siciliani e, nel 1898,
con Antonio Starabba di Rudinì a Milano e altrove, la repressione violenta dei moti e delle rivolte
causate dal carovita e l’adozione permanente delle cosiddette leggi liberticide. Ma nonostante
l’avvento al potere di Giuseppe Zanardelli nel 1901, che inaugura l’Età giolittiana, le aspettative
democratiche e repubblicane di Salvemini andranno deluse: non saranno attuate quelle politiche
antiprotezioniste tanto auspicate a garanzia delle masse contadine del Mezzogiorno con l’accordo
delle rappresentanze operaie del Nord.
Salvemini, infatti, aveva pienamente aderito alla battaglia antiprotezionista che il corregionale
Antonio De Viti De Marco aveva condotto per primo all’indomani della tariffa doganale del 1887 e
che, secondo il salentino, determinava la caduta innaturale dei prezzi dei prodotti agricoli e
l’aumento dei prezzi dei manufatti provenienti dalle industrie del Nord, entrambi fattori responsabili
di una «depressione economica cronica dell’Italia meridionale» 8 .
Lo storico pugliese, nel mentre il nuovo secolo si presenta con migliori prospettive in termini di
legislazione sociale e di peso dei partiti che difendono i diritti dei lavoratori (il radicale Mussi a
Milano viene eletto sindaco nel 1899, i socialisti raddoppiano gli esponenti in Parlamento nel
1900), diventa titolare della cattedra di Storia all’università di Messina.
L’inizio del Novecento è anche il momento in cui Francesco Saverio Nitti esprime in “Nord e
Sud” la sua radicale critica regionalista alle politiche governative dei primi quarant’anni del Regno
d’Italia; un’ analisi che lo storico Salvatore Lupo riassume e sintetizza compiutamente con le
seguenti espressioni: «Il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni, perché le politiche del debito
pubblico e del prelievo fiscale lo hanno espropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo
borbonico, perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste del
nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati al Nord, perché gli impiegati sono in maggioranza
settentrionali». Una dura presa di posizione e una ferma scelta di campo che impegna a fondo
Giustino Fortunato nel cercare di parare i contraccolpi, allarmato e consapevole che gli scritti del
melfese stavano alimentando le già consistenti nostalgie borboniche e i lievitanti sentimenti
antiunitari, che nel rionerese avevano sempre trovato un fiero e determinato oppositore, quale
convinto allievo desanctisiano 9 .
Un atteggiamento, quello di Fortunato, che induce Antonio Gramsci a ritenerlo, insieme a
Benedetto Croce, tra «i reazionari più operosi della penisola», sempre attento a che l’
«impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse
rivoluzionaria» 10 . Un atteggiamento che non lascia indifferente lo stesso Nitti che nel 1903 scrive:
«Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi
aumentate la discordia». Per Nitti, invece, le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il
controllo, diminuire gli abusi; occorreva al contrario temere «la rassegnazione torpida da una parte,
la spoliazione sistematica dall’altra» 11 .
Salvemini rappresenterà pienamente le tendenze regionaliste e antigovernative, contro le
politiche protezioniste di inizio Novecento e tenterà anche, tra le soluzioni possibili per uscire
dall’asfissiante centralismo inaugurato con il processo unitario, la via del federalismo in relazione
alle tesi di Carlo Cattaneo.
La travagliata esperienza con il Partito socialista si conclude nel 1911, quando Salvemini
prende atto che la sua idea di legare i destini del mondo operaio del Nord con quello dei contadini
meridionali, al fine di scalfire l’egemonia del blocco agrario latifondista del Mezzogiorno e quello
industriale della borghesia settentrionale, non avrebbe avuto un futuro.
È questo l’anno in cui Salvemini fonda “L’Unità”, iniziando o proseguendo un’intensa
collaborazione con gli intellettuali che si oppongono alle posizioni protezionistiche di Antonio
Giolitti. Tra questi intellettuali è bene ricordare Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Gino Luzzatto,
Giustino fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre a Piero Gobetti,
Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Un giornale che dal 1911 al 1920 affronta ed esamina tutti i
temi caldi di una società che va incontro alla tragedia della guerra mondiale, e che già
normalmente deve affrontare e risolvere mille problemi, dalle questioni tributarie e fiscali alle
necessarie riforme elettorali, dagli esiti delle politiche protezioniste alla questione meridionale,
dall’esodo migratorio alla riforma agraria.
Il Salvemini interventista entra poi in relazione, incoerentemente, con i nazionalisti e con la
Destra fino a trovare nella monarchia elementi positivi, dimenticando che il peso maggiore della
guerra lo avevano subito pesantemente proprio i suoi contadini del Sud. E nel dopo guerra,
distante ormai dai socialisti che lo avevano deluso sul piano del liberismo economico e della
questione meridionale, si ritrova in Parlamento grazie alla vicinanza con i gruppi combattenti, dai
quali ben presto prende le distanze quando respinge le tentazioni autoritarie del nascente
fascismo. Un fascismo che lo vede esule, dopo l’arresto del 1925; prima a Parigi, dove nel 1929 dà
vita con altri intellettuali antifascisti (Tarchiani, Lussu, Cianca, Nitti, i fratelli Rosselli, Rossi, Parri,
Ginzburg) al movimento Giustizia e Libertà, poi ad Harvard, dove insegna Storia della civiltà
italiana.
Tornato in Italia nel 1949, Salvemini riprende a insegnare a Firenze. Lo storico piemontese
Salvadori riassume le riflessioni degli ultimi anni di vita dell’intellettuale pugliese: aveva perso la
fiducia nella capacità delle élite meridionali, non nutriva più grandi speranze nel suffragio
universale che il «ministro della malavita» Giolitti aveva concesso nel 1912, si era ricreduto persino
sul federalismo, quasi a permettere una «rivincita tardiva di Turati» che aveva profondamente
osteggiato, quasi «un’implicita presa di posizione critica nei confronti della “rivoluzione
meridionale” progettata da Dorso» e, persino, «guardando le forze in campo a favore del Sud, non
ne vedeva altra se non i comunisti», di cui aveva aspramente combattuto non solo l’ideologia, ma
in maniera decisa la linea politica 12 .
1 L. FRANCHETTI – S. SONNINO, La Sicilia nel 1876, Firenze, Barbera, 1877.
2 P. VILLARI, Lettere meridionali al direttore dell’Opinione: marzo 1875, Torino, Tipografia l’Opinione,
1875.
3 G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, «Rassegna settimanale», 2 novembre
1879.
4 Intellettuali della rivista «Rassegna settimanale».
5 F.S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo, 1900.
6 M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura
di Sabino Cassese), Bologna, Società editrice il Mulino, 2016.
7 Ivi, p. 133.
8 A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», gennaio 1891; ora in
R. VILLARI (a cura di), Il sud nella storia d’Italia, vol. 1°, Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 202.
9 S. LUPO, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, «Meridiana», n. 32, a. 1998,
p. 38.
10 A. GRAMSCI, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura
di M. Rossi-Doria, vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp. 14-15.
11 F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M.
Rossi-Doria), vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp.14-15.
12 M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura
di Sabino Cassese), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 140-141.