Antonio Troise

Come si vive in un Paese senza classe operaia, che ha smarrito il ceto medio, che ha tradito i giovani e si regge sui pensionati? Qualcuno potrà pure parlare delle inevitabili conseguenze dell’economia 4.0 e dell’inevitabile cambiamento del mondo post-globalizzazione. Ma, forse, più semplicemente, i dati diffusi ieri dall’Istat, sono l’esatta fotografia di un Paese che ha subìto le conseguenze della più grave e lunga crisi del dopoguerra senza trovare gli anticorpi giusti per combattere il virus della recessione e della povertà.

Nella relazione annuale dell’istituto di statistica ci sono, per la verità, anche trend che partono da lontano, prima ancora della recessione. La scomparsa della classe operaia è il frutto della rivoluzione tecnologica e di un sistema produttivo dove automatismi e robot tendono sempre di più a cambiare l’organizzazione del lavoro e a superare la vecchia fabbrica “fordista”. Ma la vera novità è che le nove classi sociali individuate dall’Istat sono tutte livellate verso il basso. E non solo in termini di reddito: cresce a dismisura anche il lavoro poco qualificato e, di conseguenza, pagato poco e male. Mentre raggiunge livelli record il numero delle persone in difficoltà, che comprende sia il grande esercito di italiani che ha varcato la soglia della povertà, sia quello che arranca per arrivare alla fine del mese.

I numeri dell’Istat ci raccontano anche di un Paese che vede sempre di più aumentare le disuguaglianze. E, a quelle antiche fra Nord e Sud, si aggiungono quelle nuove, frutto dell’insufficienza di quelle politiche di redistribuzione che erano state il motore del boom economico e l’architrave della prima e della seconda repubblica. Tutto da rifare. La distanza fra ricchi e poveri aumenta. E aumenta anche la distanza fra chi è riuscito ad entrare nel mercato del lavoro e i giovani condannati a saltare a piè pari l’appuntamento con un’occupazione stabile, costretti a rimanere fino a 35 anni a casa con i genitori e con scarse prospettive di mettere su famiglia. Con queste premesse, non ci si può affatto meravigliare se l’Italia ha ormai conquistato il triste primato di Paese più vecchio d’Europa e se il numero dei neonati ha battuto l’ennesimo record negativo. Fino a quando i giovani e le donne continueranno a pagare il prezzo più alto della crisi, non resta che affidarsi ai pensionati, una delle poche categorie che continua ad andare avanti nonostante i tagli e le riforme garantendo un minimo di stabilità economica ai nuclei familiari in difficoltà. Ma un Paese che non investe su giovani e donne non va da nessuna parte. E, soprattutto, non riuscirà mai ad imboccare il sentiero della crescita e dello sviluppo.

fonte: L’Arena