Il nostro lockdown (o quel che più appropriatamente i francesi chiamano confinement– insomma, essere messi sotto chiave mi sembra poco romantico, e ti fa sentire un pò troppo galeotto o animale), sta arrivando ad un punto critico, un picco. Eggià, esiste il picco del contagio, ma anche il picco psicologico dell’isolamento sociale.
La prima fase, della minaccia esterna assoluta e comprensibile, ha legittimamente dato luogo al provvedimento di chiusura, distanziamento sociale e divieto di uscire (se non per tre motivi fondamentali – lavoro, salute, spesa -, più una serie di vaghi motivi accessori): tutti distanti, tutti vicini. E tutti accomunati da un chiaro preciso motivo.
Questo isolamento/confinamento individuale, è in qualche modo bilanciato dalla condivisione, e questo essere accomunati ha un non trascurabile valore di rinforzo e sostegno psicologico: ti da più forza per sostenere privazioni, sacrifici, rinunce e frustrazioni che questa fase impone. Inoltre, questo isolamento spinge, giocoforza, ad un maggiore raccoglimento e introspezione, su dimensioni, obbligatoriamente, intime, affettive, emotive (stiamo di più in casa, in famiglia, tra gli affetti, ecc.) e, escludendo – in questa riflessione – contesti malsani e violenti, il più delle volte questo raccoglimento personale ha un effetto complessivo di bilanciamento, di ripristino e di equilibrio dello stato psicologico (che nello stress della vita quotidiana, crea esasperazioni, tensioni, squilibri, appunto), un po’ come sta succedendo con l’aria meno inquinata, il mare più pulito e più a disposizione di specie marine generalmente confinate e assenti alla nostra vista, o l’erba che cresce tra i sanpietrini a Piazza Navona. Però, se un breve periodo di digiuno fa bene all’organismo, lo mette a riposo, gli permette di smaltire tossine e riequilibrarsi, se tale periodo si protrae l’organismo va in carenza, si scompensa, sviluppa reazioni negative (sintomi), e si ammala.
Così anche questo processo di isolamento/divieto di uscire (positivo per certi versi, di bilanciamento) raggiunge un picco, con il rischio che il raccoglimento diventi ripiegamento in se stessi, una sorta di fuga depressiva. Soprattutto se la comprensibilità della univoca minaccia esterna comincia a sgretolarsi, ed il rinforzo psicologico della condivisione collettiva, lascia posto al riemergere di singole minacce, singoli mostri personali con cui ciascuno deve fare i conti da solo (il lavoro, la vita sociale o sentimentale, la casa, ecc.ecc.), deve tornare a fare i conti dopo il confinamento, che tutto sommato livellava le singole individualità: di fronte alla minaccia della morte siamo tutti uguali, ma la vita è fatta di estreme differenze individuali, con gioie e drammi. Ecco che quindi l’isolamento rischia di diventare un’abitudine, una rassicurante rinuncia, una fuga depressiva.
Allora, sarebbe meglio cominciare a dare delle piccole aperture, cominciare a dare voce a qualche singola sofferenza (aprire i parchi per i bambini, aprire le librerie, permettere consegne di pizze a domicilio, o anche di sfogliatelle e babà), insomma, infine, curare anche un pò la comunicazione, e dare l’impressione concreta che si sta uscendo, senza insistere troppo con toni da carceriere sadico e punitivo, brandendo una minaccia esterna cui si fa fatica a credere, e dare l’impressione, sempre da parte della comunicazione istituzionale, che si sta mettendo mano anche alle carenze gestionali.
Antonio Pitoni