Rosario Livatino, magistrato integerrimo ucciso per mano mafiosa il 21 settembre di venticinque anni fa, mentre si recava al lavoro sulla strada per Agrigento. Fu barbaramente assassinato con estrema facilità perché nonostante le inchieste scottanti che conduceva non aveva una scorta. Giovanni Paolo II lo definì “martire della giustizia”. Eppure devo dire, con sommo dispiacere, che oggi nella nostra memoria di italiani la figura di quest’uomo, brutalmente privato della vita a 38 anni, non è così presente. Lo chiamarono “giudice ragazzino”, subito la morte, non senza polemica con chi all’epoca riteneva i magistrati più giovani inadeguati a ricoprire ruoli così delicati. Ragazzino invece non lo era affatto, sul versante giudiziario, le indagini da lui condotte ed i processi da lui trattati e in particolare quelli comportanti la applicazione di misure di prevenzione contro pericolosi mafiosi colpirono al cuore i loro sporchi interessi.
Già allora inquadrò la mafia nei suoi aspetti di attività imprenditoriale criminale per il conseguimento di profitti illeciti con tutte le relative conseguenze in tema di rapporti con la criminalità economica, politica e amministrativa. Era davvero una persona in gamba, sosteneva che il magistrato oltre ad essere dovesse anche apparire. Aveva una visione “sacrale” della sua professione. La sua attività culturale ed il suo comportamento esemplare di vita, (caratterizzato da integrità, onestà, non solo morale ma anche intellettuale, riservatezza, ipersensibilità, indipendenza, umanità), la cultura della legalità, intesa nella sua pratica realizzazione, la efficienza e la efficacia del servizio giustizia e, quindi la credibilità della magistratura, sono sempre state al centro della sua vita privata e di magistrato. Un esempio da imitare e seguire per tutta la magistratura italiana.