Riformare le pensioni è l’esercizio più rischioso per i governi. I nomi di Amato, Dini, sono associati a cambiamenti radicali delle regole previdenziali che hanno avuto il merito di mettere in equilibrio i conti pubblici, ma non quello di rendere più equo il sistema. Il governo gialloverde rischia di finire nel calderone degli esecutivi che hanno fatto cassa con le pensioni. All’inizio, gli annunci. La fine della riforma Fornero e i tagli ai privilegi dei parlamentari. Il taglio ai vitalizi, assicurava l’esecutivo, non è la premessa per colpire le pensioni oltre il perimetro degli organi costituzionali. Non è andata così. Nella legge di Bilancio non c’è Quota 100, cioè la norma che dovrebbe ammorbidire i requisiti della Fornero, ma c’è il taglio alle pensioni. Colpite le rendite d’oro ma senza tener conto della effettiva contribuzione d’oro, sopra i 100 mila euro lordi, e il freno al recupero dell’inflazione degli assegni. Dal prossimo primo gennaio per la pensione di vecchiaia, inoltre, si dovranno avere 67 anni di età (con almeno venti di contributi). Questo è il risultato dell’adeguamento all’aspettativa di vita, che scatta in modo automatico in base ai dati Istat sull’invecchiamento. Ma il governo ha deciso che il gradino di cinque mesi non si applicherà per l’attuale pensione anticipata: questa norma sarà inserita nel provvedimento di gennaio. Con il risultato che il requisito resta di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne. Un beneficio però limitato nella pratica, perché a questo tipo di uscita sarà applicata una “finestra” di tre mesi tra la maturazione dei requisiti e l’effettiva erogazione dell’assegno. Saranno confermate invece le uscite anticipate con l’Ape sociale, l’Ape volontaria e Opzione donna. Questo per le pensioni future. Per quelle in essere, in manovra, il governo ha prorogato il blocco della rivalutazione in base all’inflazione, introdotto dal governo Letta nel 2013.