Se si vuole andare alla radice del braccio di ferro a distanza tra Putin e Biden, in questi giorni di crisi internazionale, forse bisogna andare un po’ a fondo nelle loro abitudini. Quelle, almeno, dichiarate e conosciute.
Viceversa non si capta molto dell’impenetrabile psicologia di Putin, ad esempio, se in maniera piuttosto sommaria (grezza) si accenna alla sua presunta “paranoia”, tratto che più o meno tutti i potenti, sotto qualsiasi regime, hanno in comune.
Putin non manca di fornire occasioni per critiche anche severe alle sue scelte, in special modo a riguardo del suo modello di politica interna. E può essere accusato di avere, da moderno Zar, il pugno di ferro con gli esponenti dell’opposizione, costruendo ad arte le condizioni per restare alla guida del suo Paese praticamente e vita. Ma non risulta che veda nemici dappertutto, come accadeva ai dittatori del Novecento, né che abbia costruito qualcosa di simile ai lager e gulag di Hitler e Stalin.
Proviamo invece a far leva sulla sua passione per il judo (oltre che per l’hockey su ghiaccio), disciplina in cui è maestro. A cui si contrappone la preferenza di Biden per il golf.
Lo spirito del judo, è noto, si fonda su un principio fondamentale: sfruttare a proprio favore l’attacco aggressivo dell’avversario. Oltre a ragioni di strategia militare e di opportunità o vincoli economici quindi, per intuire perché il leader russo non si getta a testa bassa come il toro che carica in un’avventura bellica, pur avendo nel proprio esercito un vero punto di forza. Potrebbe essere utile risalire alla radice “sportiva” (quindi psicologica) alla base della (relativa) scarsa inclinazione alla invasione militare tout court. Rimarcando la filosofia alla base del metodo d’insegnamento del judo da parte del suo fondatore, Jigorō Kanō, secondo cui la tecnica di combattimento consiste nell’adeguarsi dinamicamente alla forza dell’avversario al fine di ottenere il pieno controllo della situazione:
“… se vengo assalito da un avversario che mi spinge con una certa forza, non devo contrastarlo, ma in un primo momento debbo adeguarmi alla sua azione e, avvalendomi proprio della sua forza, attirarlo a me facendogli piegare il corpo in avanti… La teoria vale per ogni direzione in cui l’avversario eserciti la forza…” (Jigorō Kanō, Fondamenti del judo, Milano, Luni Editrice, 2005).
E ora passiamo a Biden. Sembra, a quanto si legge in Rete, che una delle poche cose che il presidente USA in carica condivide con il suo predecessore Donald Trump sia il golf. Sport che consiste essenzialmente nel colpire una pallina da una postazione (area di partenza) con degli appositi bastoni, e, cercando di usare la massima precisione, mandarla in buca in altra postazione (il green). Ovviamente con una serie di colpi eseguiti conformemente alle regole. Vince chi porta la pallina in buca con il minor numero di colpi. L’essenza del gioco sta quindi nella logica acquisitiva (lineare e accumulativa) tipicamente americana (yankee), con la quale si concepisce l’impresa di successo: una sequenza di centri (buche) messi a segno.
Velo di pudore a questo punto sulle performance dell’inquilino della Casa Bianca nella gara in cui si misura l’onore (e il valore) suo: diciamo pure che la prima “buca” è andata piuttosto male: si chiama Afghanistan, abbandonato tanto in fretta e tanto rovinosamente, da dare al mondo intero l’idea di una nuova “fuga da Saigon”. La seconda lo ha visto e lo vede ancora alla ricerca della “pistola fumante”, la prova che per davvero le truppe russe si stiano ritirando dai confini con l’Ucraina.
Putin intanto sta già più avanti. Prima ha chiuso un pacchetto di accordi globali con i cinesi, poi ha riportato le lancette della geopolitica mondiale al giorno della caduta del muro di Berlino, dicendo al mondo che gli assetti strategici della geopolitica mondiale non solo non si stabiliscono “contro” la Russia, ma nemmeno “senza” la Russia.