Una tragedia dopo l’altra. Nell’indifferenza generale. Con il rischio che la missione umanitaria lanciata dall’Italia, senza alcun sostegno da parte dell’Ue, possa fermarsi già a partire da ottobre. Ieri, al largo delle coste libiche, l’ennesimo barcone affondato, con circa 200 dispersi, un tecnicismo che significa morte e strage. Tutto donne, uomini e bambini che fuggivano dalla guerra in Nord Africa, sognavano un posto al sole in Italia. Erano somali ed eritrei, vittime delle tensioni e delle guerre che l’Occidente e l’Europa continuano a ignorare. Erano partiti, dopo giorni di cammino nel deserto, con un barcone di legno, da Al-Qarbouli, a cinquanta chilometri a est di Tripoli. Ma a un chilometro dalla spiaggia il barcone si è ribaltato. Troppo vecchio, troppo carico di passeggeri. Solo in sedici si sono salvati. Fra i corpi ritrovati anche quello di un bambino di 18 mesi. Tutti gli altri sono destinati ad essere sepolti nel Mediterraneo, diventato ormai il cimitero-simbolo di una delle tragedie più gravi del nostro secolo. la guardia costiera di Al-Qarbouli non è dotata di alcun equipaggiamento di soccorso, ha addirittura preso in prestito le barche di pescatori per raggiungere l’area della naufragio.
Intanto, il Canale di Sicilia continua ad essere attraversato ogni giorno da decine di barconi. Nella notte fra venerdì e sabato, la Marina Militare ha salvato 1.373 persone e recuperato un cadavere, in sei distinte operazioni fra Lampedusa, Agrigento e Catania, condotte anche in collaborazione con la Capitaneria di porto. Tutti i migranti (il 40 per cento, siriani) sono stati trasferiti sulla fregata Fasan, che arriverà questa mattina a Reggio Calabria. Il registro di bordo parla di 159 bambini e quattro donne in stato di gravidanza, una al nono mese. «Le abbiamo chiesto quale nome darà al suo bambino — racconta il capitano di fregata Marco Bagni — ci ha detto una parola in arabo, che vuol dire mare. È il mar Mediterraneo, ormai simbolo di speranza per tanti uomini e donne».