Ventotto anni dopo, spunta una pista concreta per provare a dare un nome ai mandanti e ai sicari dell’omicidio di Antonino Scopelliti, magistrato della Cassazione ucciso a 56 anni nella sua Calabria. Un pentito ha parlato e adesso, svela Repubblica, una nuova indagine porta dritto a Matteo Messina Denaro, il superlatitante che sembra essere diventato imprendibile dal 1993. Il pentito catanese Maurizio Avola ? è lui ad aver fatto riaprire il caso ? ha parlato dei rapporti fra Messina Denaro ed esponenti dell’ndrangheta, rapporti che sarebbero ancora attuali. Dopo 28 anni è stata riaperta l’inchiesta: sono 17, scrive Repubblica, gli indagati nel fascicolo dell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Tutti nomi di primo piano dei clan. Sette siciliani, non solo il trapanese Messina Denaro, ma anche i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Poi, dieci calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.
Un patto fra Cosa nostra e ‘ndrangheta. Un accordo di ferro già venuto fuori, ma che adesso riceve un nuovo decisivo impulso, grazie ad un collaboratore di giustizia che i magistrati ritengono molto credibile. L’indagine sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti potrebbe essere ad una svolta. La Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, ha messo sotto inchiesta diciassette persone fra Calabria e Sicilia.
È il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ad aver coordinato l’inchiesta cui da anni ormai lavora senza sosta, arrivando dritto al latitante più ricercato d’Italia: Matteo Messina Denaro. La notizia viene rilanciata questa mattina su Repubblica in un articolo a firma di Salvo Palazzolo.
L’omicidio del giudice
È il 9 agosto del 1991, quando sulla strada di Piace di Villa San Giovanni il magistrato Antonino Scopelliti fa rientro a casa dopo una giornata trascorsa giù vicino al mare. I suoi pensieri sono tutti occupati da quei faldoni da cui quasi mai si separa: contengono nomi, dati e fatti del maxi processo contro Cosa Nostra. Lui, sostituto procuratore generale della Cassazione, ha un compito delicatissimo: completare l’opera iniziata da Giovani Falcone e Paolo Borsellino.Suggellare anche in ultimo grado quelle tesi accusatorie che stanno scrivendo la storia della lotta a Cosa Nostra. Un reggino, o meglio di Campo Calabro, che mette il sigillo alla più grande inchiesta della storia. Scopelliti non lo sa ma da tempo qualcuno lo sta seguendo. È diventato un obiettivo. E quella sera del 9 agosto ’91, due persone a bordo di una moto lo affiancano e aprono il fuoco. I colpi di fucili lo attingono mortalmente facendo finire fuori strada la sua auto. Tanto che quando sarà ritrovata, i primi soccorritori penseranno ad un incidente stradale. Ma no, il giudice Scopelliti non è stato vittima del fato. Né di una distrazione. I fori lasciati dal fucile sono ben visibili. È un omicidio.
Il primo processo
Dopo qualche tempo arrivano i risultati delle prime indagini che narrano di un accordo fra ‘ndrangheta e Cosa nostra per eliminare il magistrato. I siciliani avevano chiesto la cortesia ai calabresi, garantendo loro l’intervento per riportare la pax mafiosa, considerato che sullo Stretto è in atto una guerra di mafia che ha fatto oltre 700 morti. Finiscono sotto inchiesta boss del calibro di Riina, Provenzano, Graviano, ma dopo le condanne in primo grado vengono tutti assolti. Negli anni successivi e più recenti, la Dda reggina, sempre grazie al sapiente e laborioso lavoro del procuratore Lombardo, riapre nuovamente l’inchiesta. Dapprima vi sono solo due indagati. Ma è il segno che si sta procedendo spediti verso l’obiettivo.
L’arma ritrovata e le dichiarazioni
Poi nello scorso agosto, quasi a sorpresa, il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, svela un dettaglio: è stata ritrovata l’arma che ha ucciso il giudice. Non dice molto di più il magistrato, ma è già abbastanza per capire che si è sulla strada giusta per arrivare ad una svolta. A fare ritrovare il fucile è il pentito catanese Maurizio Avola, colui che di fatto ha permesso di riaprire le indagini. Le sue parole riguardano un summit tenutosi nella primavera del 1991 a Trapani, con protagonista Matteo Messina Denaro. Lì ci sarebbe stato il patto firmato da Cosa nostra e ‘ndrangheta per eliminare il procuratore generale. Un uomo che aveva detto chiaramente no a possibili avvicinamenti per aggiustare il processo.
Ed allora nella sera d’estate del 1991 a Piale vi sarebbe stato un commando composto sia da calabresi che da siciliani. Un gruppo di fuoco la cui arma principale sarebbe stata proprio il fucile calibro 12 ritrovato nelle campagne siciliane.
I nuovi indagati
Come detto sono diciassette le persone indagate dal procuratore Lombardo. Si tratta si sette siciliani: Matteo Messina Denaro, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. E dieci calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.
Inutile dire come si tratti di nomi di primissimo piano tanto di Cosa nostra quanto della ‘ndrangheta. Sulla sponda reggina spicca il nome di Giuseppe Piromalli, a testimonianza di quel ruolo rilevante da parte della cosca di Gioia Tauro, nei rapporti con Cosa nostra. Ma non mancano personaggi come Giovanni Tegano (boss sanguinario arrestato dopo lunga latitanza), Giorgio De Stefano, quest’ultimo già condannato in primo grado a vent’anni di reclusione per essere ritenuto al vertice della cupola degli invisibili, un grumo di potere massonico-mafioso che ha dominato Reggio Calabria per molti anni e Gino Molinetti detto “la belva”, ritenuto dai magistrati uno dei killer più spietati della ‘ndrangheta.
Gli esami tecnici
Tutte, tranne ovviamente Messina Denaro, hanno ricevuto un avviso di garanzia finalizzato ad un incarico tecnico di rilievo: l’esame del fucile calibro 12 e di 50 cartucce Fiocchi ritrovate dalla Polizia, a seguito delle dichiarazioni di Avola. Un atto che prevede la presenza di consulenti difensivi a garanzia degli indagati che, dunque, dovevano essere informati per legge dell’inchiesta. I magistrati ovviamente sono alla ricerca di impronte, tracce genetiche e balistiche. La conservazione sotto terra potrebbe aver permesso di lasciare intatte anche piccolissime tracce che, grazie alle sofisticate tecniche investigative odierne, potrebbero risultare decisive ai fini delle responsabilità di chi ha sparato.Fondamentale sarà il confronto con il frammento ritrovato sul luogo del delitto. Ma sotto esame vi saranno anche un borsone blu e due buste: una blu con la scritta “Mukuku casual wear” ed una grigia con scritto “Boutique Loris via R. Imbriani 137 – Catania”.
Gli scenari
L’inchiesta, dunque, è davvero ad una svolta. E lo è grazie alle dichiarazioni del pentito Avola, uno che ha già confessato poco meno di un centinaio di omicidi, fra cui quello del giornalista Giuseppe Fava. Ma mai aveva rivelato queste informazioni circa i rapporti fra Cosa nostra e ‘ndrangheta. Ovviamente non si tratta dell’unico pentito ad averlo fatto.
Nel corso del processo “’Ndrangheta stragista” (che fa luce sugli agguati ai carabinieri e sui rapporti mafiosi fra Sicilia e Calabria degli anni delle stragi) anche un altro collaboratore siciliano, Vincenzo Onorato, uno dei killer di punta della mafia, disse a chiare lettere: «L’omicidio del giudice Scopelliti fu un favore fatto dalla ‘ndrangheta a Cosa nostra. Se la sono sbrigata i calabresi, ossia i referenti che erano le famiglie Piromalli e Mancuso. Questa è una cosa che ho saputo direttamente. Non conosco chi sia stato l’esecutore materiale, ma so che è un favore fatto per volere di Salvatore Rina e della commissione». Parola che trovano conferma nell’elenco degli indagati stilato dalla Dda reggina che comprende proprio un esponente dei Piromalli. Ora non rimane che attendere gli esiti degli accertamenti tecnici per capire se davvero la strada può dirsi spianata verso un nuovo importante processo che scriva la verità su un delitto che non può rimanere impunito. Ancora una volta grazie alla caparbietà di un pm, Giuseppe Lombardo, che scava ovunque pur di ottenere giustizia. E potrebbe essere un processo chiave per definire meglio il ruolo di Matteo Messina Denaro, i suoi legami con pezzi deviati dello Stato, quegli stessi pezzi che ancora oggi gli stanno garantendo una latitanza decennale.