di PASQUALE D’ANGELO
Una domenica al mese al Museo Diocesano di Napoli, sull’ampio palcoscenico della meravigliosa chiesa S. Maria Donnaregina Nuova, sette giovani interpreti diretti dalla regista Ludovica Rambelli animano di sangue vivo i personaggi di 23 tele di Michelangelo Merisi da Caravaggio, li caricano di dramma, eccitano cuore e cervello, danno shock, ipertensione e cali glicemici; stupore, orrore, meraviglia, estasi, rappresentano la più tragica bruttezza umana e al tempo stesso la bellezza più alta di forma e di sostanza etica.
Si svestono e si rivestono a vista in pochi istanti, figurando volta a volta dipinti disseminati nei musei del mondo, sotto “Un solo taglio di luce che illumina la scena”.
Dopo somministrazione di sali inglesi, due giorni di astinenza forzata da viveri, tablet, smartphone, notebook, televisione… e solo acqua, tutti noi disgraziati dovremmo per norma imperativa di diritto pubblico assistere a questo spettacolo, che sembra nato, più che da un’idea, da una predestinata necessità storica.
La terapia andrebbe somministrata almeno a cadenza quinquennale, se necessario nei modi prescritti dai terapeuti di “Arancia meccanica” ultima scena: davanti a tutti, chi scrive, naturalmente. In prima fila, poi, quella nostra “borghesia” che su “L’ Espresso” del 28 novembre 2013 un noto scrittore napoletano definisce “ Negligente e pigra”. In seconda fila sistemerei invece i delinquenti e tutta quella fascia di popolazione sempre ai margini della legalità, quella altolocata e quella terra terra “chiagni e fotti”/ “vulimm’ ‘o post’ ”. In terza fila i religiosi osservanti soltanto in chiesa, e poi ancora, solo in quarta e ultima fila, politici, amministratori e dirigenti pubblici incapaci e disonesti, così dislocati soltanto perché non di molto più responsabili dello status quo di quanto lo siano tutti gli altri che li legittimano a ogni tornata elettorale.
Il pittore stesso avrebbe motivo di assistervi se fosse vivo, perché è certo che tutte quelle scene che di fatto ebbe a donare ai posteri con i suoi capolavori poteva solo immaginarle partorendole forse senza “subirle” magari proprio per liberarsi dalla bruttezza che ci attanaglia tutti a partire dal peccato originale: la civiltà con cui l’uomo domina la natura fino a rischiare seriamente di distruggere se stesso.
E’ improbabile infatti che il Merisi ospitasse più d’un modello alla volta nelle sue botteghe, quando pure – com’era uso – non riproducesse i suoi tratti nei volti dei suoi personaggi o non si servisse di pregressi studi di caratteri che ogni pittore usava accumulare tra i propri strumenti d’arte.
Assistere a tanta bellezza e al contempo all’orrore di decollazioni annunciate, sacrifici, martìri, flagellazioni, in versione più realistica (quella degli attori) del controverso realismo del più rivoluzionario tra i pittori del tempo, ci desta tutti dal torpore morale e intellettuale, scatena slanci di autoconsapevolezza, voglia di riscatto, smania di fare, costruire, recuperare, sanare.
Allora ruotiamo lo sguardo e cominciamo a costatare quanto depredata sia la chiesa – comunque meravigliosa – che ci ospita; pensiamo a tutte le chiese abbandonate, saccheggiate, umiliate di Napoli; pensiamo quale occasione educativa il Paese perde da troppo tempo, dal momento che ottusamente non pone al centro della scuola l’arte in tutte le sue forme, l’artigianato, che spesso sono tutt’uno con la creatività e l’ingegno più avanzato, da sempre, ancor prima che ne desse testimonianza Leonardo da Vinci padre di ogni tecnologia moderna, la stessa in cui l’Italia ha primeggiato nel mondo fino a pochi “giorni” fa; dal momento che non pone al centro la matematica, trascurata a favore di un travisato, posticcio, vacuo culto “borghese”del liceo classico, che per vero agonizza dall’epoca della folle e patetica ideologia del 18 politico, così come tutte le altre nostre scuole superiori, e – altrettanto ottusamente – ignora l’improcrastinabile esigenza di creare veri istituti professionali.
E l’economia reale? Quanto tempo i rappresentanti di certe ideologie ineluttabilmente svaporate, e tutti gli altri, all’esito di ogni metamorfosi delle rispettive parti politiche, hanno impiegato per comprendere quale fosse il potenziale per il nostro PIL ricavabile dal 70% del patrimonio culturale mondiale che l’Italia detiene, di cui tutti si riempiono ora la bocca con grottesco ritardo e inconsistenza di proposte? Quante diossine, benzeni, quanto amianto, particolato, mercurio, cromo, piombo … ci saremmo potuti e ci potremmo risparmiare, se politici, industriali e sindacati (tutti complici) avessero agito e agissero di conseguenza? Quanti potenti sindacalisti si sono spesi per una autentica protezione della classe operaia? Quanti di loro – tra una trattenuta sindacale e un’altra – si sono premurati di contestare alla controparte il noto rapporto causa-effetto nelle patogenesi di quelle e altre sostanze tossiche? Forse “lottare” soltanto per quote di salario, art. 18, cassa integrazione o altre ipocrisie da contratto collettivo nazionale portava e porta più consenso della tutela della salute operaia e non? Tutto più importante dell’orrore di cancro, aberrazioni genetiche e malattie autoimmuni?
Terapie a parte, comunque li si voglia fruire, i 23 tableaux vivants de “La conversione di un Cavallo” creano uno spettacolo di spessore e di bellezza desinato a crescere, e l’incoraggiamento di un entusiasta recensore occasionale va anche al Museo Diocesano, artefice di tanta cultura e bellezza, oltre che alla consueta difficile condizione di chi vive d’arte e, nella specie, ad Andrea Fersula, Serena Ferone, Ivano Ilardi, Laura Lisanti, Chiara Kija, Paolo Salvatore, Claudio Pisani e all’aiuto regista Dora De Maio.