“Cielo da vedere e terra da camminare” (Ideas Edizioni) è una raccolta sul filo della memoria di “frammenti di vita sannita”, la cui leggerezza mista a malcelata nostalgia si deve all’occhio indulgente e all’animo lirico di Mario D’Agostino. Un laureato in Chimica che ha alternato alla lunga carriera di docente in Scienze farmaceutiche (ha insegnato negli istituti superiori, poi come professore a contratto nell’Università di Napoli Federico II) ampi inserti di interesse umanistico, a testimonianza che i professori di una volta erano uomini di pensiero a tutto tondo, non gli specialisti inclini fino alla nausea alla settorialità di una disciplina.

Mario D’Agostino appartiene alla ormai rara pasta di intellettuali motivati da passioni molteplici, da una ferace curiosità – quella che ancora distingue l’uomo di cultura dall’erudito -, dalla capacità di tenere insieme i singoli tasselli del mosaico con l’olistica visione che tiene insieme il tutto. E così tutte le pietre compongono l’arco e lo sostengono. Sicché i libri di analisi chimica e una cinquantina di volumi sulla chimica delle sostanze naturali, dovuti all’insegnamento della materia, si sono affiancati nel tempo opere di poesia e narrativa, di storiografia locale e dialetto, mentre si dipanava il filo di un impegno filologico ultratrentennale, teso al recupero completo dei manoscritti del commediografo pescolano Giandomenico Viglione.

Dilungarsi sul profilo biografico di questo autore non è piaggeria, ma scelta necessaria e forse insufficienteper meglio giungerealla chiave di lettura più giusta con cui accostarsi all’ultimo lavoro:un florilegio composto da fiori di vita vissuta e boccioli di vita trasfigurata, avvolto nell’aspidistra del ricordo e nella carta velo della cronaca minima (perché dire minore sarebbe fuorviante…)del contesto più amato, e quindi allo stesso modo appassionato e appassionante,del paese natio. Insomma a D’Agostino è stato sufficiente rinunciare a una doppia congiunzione – il “né – né” del classico motto napoletano – per dare da un lato la stura al racconto e, dall’altro, incapsularlo sotto il titolo più efficace che si potesse trovare: cielo da vedere, terra da camminare.

 

COPERTINE

Il libro narra – si legge nella quarta di copertina – le vicende di una famiglia contadina del Sud ambientate tra la fine della seconda guerra mondiale e gli inizi del terzo millennio. Una sorta di romanzo storico in cui, sullo sfondo di fatti che scorrono in primo piano, si intravedono in filigrana tutti i principali rivolgimenti politici e socioeconomici dell’epoca. A scanso di equivoci, però, occorre precisare che solo i luoghi descritti, e nemmeno quelli in maniera sempre puntuale, corrispondono al vero. La storia raccontata, invece, à di pura invenzione…

Non è una invenzione, viceversa una forte suggestione, quella che nella prima di copertina suggerisce uno scorcio vagamente impressionista di Pesco Sannita, delizioso comune collinare accanto al fiume Tammaro a sedici chilometri da Benevento e a un tiro di schioppo da Pietrelcina. Immagine data alla tela dai pennelli di un altro professionista, l’amico Antonino Scialdone, cardiologo con cattedra alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Federico II e dai medesimi interessi plurimi: dal teatro praticato sotto la regia di Peppe Sollazzo alla pittura come forma prediletta di espressione.

Dal capitolo IV scegliamo un piccolo brano di lettura, uno scorcio assai esplicito del modo di guardare che ha l’autore al passato recente e prossimo del suo modo. Ma anche un episodio che si propone quasi come un presagio, alquanto amaro, di tempi più attuali:

 

IL BRANO

 

Al bar di Nicodemo, dinanzi alla macchina per l’espresso nuova fiammante che sbuffava come una locomotiva sotto sforzo (spettacolo insolito questo per un locale dove, fino al giorno prima. Il caffè s’era sempre fatto on una semplice napoletana), si stava discutendo animatamente dei risultati del referendum.

“Re Umberto se n’è andato con dignità” disse rammaricato don Leopoldo appoggiando sul bancone la tazzina vuota. Da liberale convinco non riusciva proprio a mandar giù la cacciata della monarchia.

“Ci siamo tolto di torno un altro mangiapane” rispose Salvatore il barbiere che, essendo socialista, non poteva certo essere d’accordo con il sindaco. Sentiva, anzi, come sua la vittoria dei repubblicani e ne gongolava senza ritegno.

“E bravo fesso!” si intromise piccato il segretario comunale scattando come una molla (non per prendere le difese di don Leopoldo, comunque, ma semplicemente perché non aveva mai sopportato la saccenteria di quell’uomo che entrava a proposito e a sproposito in ogni discorso). “Una cosa non l’ho ancora capita. Invece di contribuire solo con una piccola cifra all’appannaggio del re che, in fondo, essendo già ricco di famiglia, non ne ha nemmeno bisogno, sarai costretto a sborsare molto di più per mantenere deputati e presidente Chi vivrà vedrà”.